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Il valore della lingua latina nella liturgia romana

"Di quella Roma onde Cristo è romano" (Purg. XXXII 102)

Pensiero spirituale all'assemblea 
di Una Voce-Udine il 20 febbraio 2004

di don Ivo Cisar

 

San Paolo scrive a Timoteo: "Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l'imposizione delle mie mani" (2Tm 1,6). Vale per i sacerdoti, vale per i laici, per i sacramenti cosiddetti "caratteristici", per quelli cioè che imprimono il carattere sacramentale indelebile che postula e richiama l'ultimo effetto dei sacramenti, la grazia. Si tratta dei sacramenti del battesimo, della confermazione e dell'Ordine sacro. Tutta la vita cristiana non è altro che il vivere il sacramento del battesimo, ricevuto una volta per sempre, irripetibile, sacramento della nostra consacrazione a Dio in Cristo e della nostra santificazione, ravvivando sempre in noi la grazia del battesimo sulla base del carattere sacramentale cristiano, rafforzato dal carattere sacramentale della cresima. E questo si fa risalendo ed attingendo continuamente alla radice, alla sorgente, dalla quale scaturiscono tutti i sacramenti, al sacrificio di Cristo che si rinnova sull'altare nella santa messa.

Per partecipare al sacrificio eucaristico fruttuosamente serve anche la lingua latina. Non per creare in voi le convinzioni che già avete, ma per ravvivarle e confermarvi in esse - come "Paolo e Barnaba rianimavano i discepoli, esortandoli a restare saldi nella fede, poiché, dicevano, è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio" (At 14,22) - sottopongo alla vostra attenzione alcune riflessioni sulla lingua latina nella liturgia romana, sulle sue ragioni, sul suo significato e sui suoi pregi. Anche se la questione della messa tridentina non si riduce a quella del latino come ritengono erroneamente molti profani, ma è questione di tutta la sua struttura, essa è tuttavia anche questione della lingua latina.

A favore della lingua latina nella liturgia militano le seguenti ragioni.

a) Il latino è una lingua storica, familiare della Chiesa cattolica che l'ha mantenuta sempre viva, la lingua della sua liturgia e della sua teologia, dei suoi documenti ufficiali, compresi quelli del Concilio Vaticano II; anche nelle liturgie orientali sono in uso lingue storiche, come la paleoslava, ecc.

b) Il latino è una lingua romana che manifesta la nostra appartenenza alla Chiesa una santa cattolica apostolica romana: la nota di romanità viene aggiunta legittimamente qualche volta alle quattro note principali della Chiesa. La lingua latina ci lega al Papa ed esprime la nostra appartenenza a Roma, al Vescovo di Roma, che in Pietro ha scelto Roma a sua sede, come ritiene san Leone Magno, "per divina disposizione" (Diz. eccl. III, 64), "quella Roma onde Cristo è romano" secondo Dante Alighieri (Purg. XXXII, 102). Gesù è nato sotto Cesare Augusto (Lc 2,1), vissuto sotto l'imperatore Tiberio (Lc 3,1), di cui riconobbe l'autorità (Mt 22,21), morto sotto il governatore romano Ponzio Pilato (Credo). Pietro predicò e morì martire a Roma (cfr. At 12,17; 1Pt 5,13), dove si trova la sua tomba. Paolo, cittadino romano (At 22,25-28), morì pure a Roma e vi è la sua tomba: il duplice martirio romano unisce i prìncipi degli Apostoli e questa unità romana viene celebrata in una unica festa apposita (il 29 giugno). Noi tutti, quindi, siamo cittadini romani ed il latino è la nostra lingua materna, lingua della santa Madre Chiesa.

c) Il latino è una lingua sacra: essa esprime la separazione dal profano, come i paramenti sacri che indossa il sacerdote, mentre anche i fedeli di domenica e nei giorni festivi si vestono in una maniera diversa, non ordinaria, ma più solenne; la lingua latina favorisce il distacco dal profano e la pietà.

d) Il latino è una lingua sacerdotale, riservata specialmente ai sacerdoti, soprattutto nel Canone romano; è la lingua che contrassegna la funzione del sacerdote, mediatore tra Dio e gli uomini, che agisce in persona di Cristo, non confondendosi con i fedeli, a favore dei quali, tuttavia, come ministro di Cristo, intercede (cfr. Eb 7,12), offrendo il sacrificio di Cristo e della Chiesa sull'altare, agendo come "Amico dello Sposo" (Gv 3,29) che unisce lo Sposo e la Sposa (Ef 5,22-32) e gode della loro unione (2Cor 11,2).

Dalla mia traduzione del Canone romano (che prescinde dalle altre parti della santa messa, specialmente dal nuovo "Offertorio", del tutto mal ridotto e poco offertoriale) risulta:

1° la difficoltà di traduzione perché essa renda veramente il testo originale,

2° le infedeltà ed i cambiamenti introdotti nella traduzione italiana, che ne alterano in certi passi anche il significato teologico.

Pertanto la mia traduzione è volutamente rigorosamente letterale, per dimostrare specialmente a chi non conosce (bene) il latino, le differenze (ad 2°), ma anche per convincere che un tentativo di traduzione che suoni bene (ad 1°) sia quasi irrealizzabile.

Le traduzioni (inoltre) svigoriscono il testo latino che, oltre ad essere sicuramente ortodosso, è destinato alla recita del solo Sacerdote [1], al quale, pertanto, bisogna riservare un testo autentico, vigoroso, perché gli dia la possibilità di celebrare degnamente, con piena comprensione delle formule liturgiche. Eliminando il latino si è persa la teologia racchiusa nella liturgia.

Il testo latino è in qualche maniera intraducibile ed è male tentare di tradurlo, perché se ne perdono i significati profondi.

e) Il latino è una lingua immutabile: essa garantisce l'ortodossia, cioè la retta fede; certe espressioni, come scrisse Paolo VI nell'enciclica Mysterium fidei, sono da conservarsi come tessere della fede.

Anche nel Nuovo Testamento, soprattutto nel vangelo secondo san Marco che riporta la predicazione di san Pietro, sono state conservate appositamente certe espressioni ebraiche o aramaiche, per esempio Boanèrghes (Mc 3,17), Talità kum (Mc 5,41), Effatà (Mc 7,34), Eloì, Eloì, lemà sabactàni (Mc 15,34), Rabbunì (Gv 20,16) ecc.

La filosofia, il diritto, la medicina e altre discipline, fino all'informatica, hanno tutto un patrimonio di espressioni tecniche, spesso di radici greche o latine. Nel Nuovo Testamento si sono conservati molti termini ebraici o aramaici, passati nella catechesi e nella predicazione, quali abba, Messia, osanna, pascha, golgota, mammona, satana, geenna; ma anche nella liturgia come Amen.

Oggi sono di moda anche le espressioni ebraiche come per esempio šalom e solo il latino dovrebbe essere eliminato?!; sfido i sostenitori delle lingue volgari nella liturgia che mi dicano se il popolo sa con precisione quale sia l'esatto significato della parola Alleluia; la denominazione "eucaristia" è di origine greca; molti termini latini sono entrati nel linguaggio popolare, per esempio "finire in gloria", alludendo alla conclusione dei salmi; lo stesso termine "messa" deriva dal latino.

Pertanto è illogico voler eliminare una lingua antica e significativa come il latino, quando poi si conservano molte espressioni ebraiche, aramaiche e greche passate nel linguaggio comune come lo stesso latino.

f) Il latino è una lingua universale: essa tutela l'unità, la coesione di fede e di carità, nella Chiesa cattolica; nel Medioevo era la lingua europea; oggi si diffonde nel mondo sempre più l'uso della lingua inglese, nella quale, peraltro, sono passati molti termini latini, oggi deturpati dalla pronuncia, le varie lingue ne adottano le espressioni e solo la Chiesa cattolica dovrebbe rinunciare al proprio linguaggio che unifica i popoli? Lo stesso Paolo VI sentì ed esternò la gravità della decisione dell'abbandono della lingua latina.

g) Il latino è una lingua confermata dal Concilio Vaticano II: "Linguae Latinae usus, salvo particulari iure, in ritibus Latinis servetur" (SC 36/EV 1, 61; cfr. Conc. Trid. Sess XXII., cap. 8, can. 9: Denz. 1749, 1759); il medesimo Concilio ha prescritto che il latino si studi nei seminari (OT 13) e stabilì che "secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici si deve conservare nell'ufficio divino la lingua latina" (SC 101/EV 1,180). Da queste citazioni risulta chiaro chi è fedele al Concilio Vaticano II e chi lo tradisce, chi sta nell'unità della Chiesa, non solo in quella sincronica, attuale (peraltro, appunto,  molto incrinata), ma anche in quella diacronica, storica, ossia nell'unità con la Chiesa dei venti secoli che ci hanno preceduto.

Infine domando: che cosa giova di più ai fedeli, e quindi a tutta la Chiesa, alla salvezza eterna: il percepire materialmente [2] ogni parola della liturgia, o conoscere e comprendere lo spirito della liturgia, della santa messa, penetrarne l'essenza ed applicarvisi con tutta la mente e con tutto il cuore (cfr. Mt 22,37)?

A questo proposito termino con un'autocitazione (cfr. Spiegazione della messa tridentina 7). Si può ricorrere ad un paragone tratto dall'opera: anche in essa non sempre vengono percepite e capite le singole parole, ma se ne capisce la sostanza dell'azione ossia l'azione complessiva, la trama principale, e se ne percepisce la bellezza, grazie alla musica. La partecipazione si realizza applicando alla santa messa non un chiasso incessante ed assordante delle parole, spesso puramente umane, tutto concentrato sul sacerdote quale attore principale che si trova su una specie di palcoscenico rivolto verso i fedeli, ma una vera elevazione dello spirito, mediante una partecipazione personale, entro una splendida cornice architettonica, artistica e rituale. Vi è necessario anche e soprattutto il silenzio (esteriore), e come il sacerdote si serve del messale, così possono fare i fedeli con l'ausilio dei messalini o dei foglietti, come si fa con il libretto dell'opera: non è forse anche la liturgia un'opera, opus Dei?

LAUDETUR IESUS CHRISTUS!

 


[1] Anche il Canone "romano" viene recitato, purtroppo, in lingua volgare, ad alta voce, verso il popolo, e nella sua traduzione è stato introdotto qua e là il plurale collettivizzante e le acclamazioni del popolo. Vi è una progressiva protestantizzazione postconciliare della messa: dalla introduzione delle lingue volgari e l'altare voltato verso il popolo, attraverso le concelebrazioni e la partecipazione dei lettori e dei "ministri straordinari dell'Eucaristia", si arriva alla sostituzione della messa con liturgie della parola, della sola preghiera…; la messa viene prima protestantizzata, poi ridotta di numero e praticamente eliminata: essa non è più sacrificio, tutti sono "sacerdoti", la celebrazione, "presieduta" da un sacerdote o da un laico, è un atto collettivo, un'assemblea della "comunità" (senza il sacerdote, senza l'Eucaristia!) …

[2] È una costante nel vangelo secondo san Giovanni che l'agiografo nota passim che i giudei fraintendevano Gesù prendendo le sue parole nel senso materiale, mentre Egli li correggeva ripetutamente svelandone il senso spirituale. Il richiamo al passo 1Cor 14,19 "in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue" non è ad rem, sia perché la messa non è solo né principalmente istruzione, ma si rivolge a Dio Padre, sia perché il latino non è una specie di glossolalia consistente in frasi incomprensibili.

 

 

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Inserito il 18 marzo 2004

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