Messe tridentine nelle Venezie
Padova
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Messe tridentine PADOVA |
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Chiesa di S. Canziano (detta di S. Rita) Via San Canziano (piazza
delle Erbe), Padova Messa tridentina Contatto:
News 21 marzo 2019 ore 18 messa cantata
alla chiesa di S. Benedetto Vecchio, Padova 12 marzo 2019 messa di san
Gregorio Magno alla chiesa di S. Canziano a Padova Messe tridentine a Padova nel
mese di marzo 2019 A Padova il 31 gennaio 2019
messa di san Giovanni Bosco 2018 A Padova il 14 dicembre 2018
messa cantata di san Venanzio Fortunato Ordo Missae celebrandae
2019. Pubblicato a Venezia dal Circolo Traditio Marciana Nel trigesimo di Giamberto Scorzon 2017 A Padova cantata messa di
requie per i frequentatori della chiesa di S. Canziano 2015 Padova, chiesa di S. Gaetano 6 giugno 2015 Padova,
battistero del Duomo 6 giugno 2015 Padova,
chiesa di S. Canziano (vulgo S. Rita) messa cantata il 24 maggio 2015
Domenica di Pentecoste 2014 Padova, chiesa di S. Canziano vulgo S. Rita,
messa cantata in rito tridentino il 1° novembre 2014 Padova, chiesa di S. Canziano vulgo S. Rita,
messa cantata in rito tridentino il 22 giugno 2014 Padova, chiesa cappella universitaria di S.
Caterina, vespri solenni il 31 maggio 2014 (immagini) Padova, scoletta del Santo,
messa cantata il 15 febbraio 2014 Padova, chiesa dei Servi, messa cantata il 14
febbraio 2014 2013 Padova, chiesa di S. Caterina, messa tridentina
il 25 novembre 2013 Padova, parrocchia di Gesù Buon Pastore, messa
tridentina il 16 novembre 2013 Pra d’Este, chiesa della Ss. Trinità, messa di
requiem il 2 novembre 2013 Padova, chiesa di S. Canziano vulgo S. Rita,
messa dei Morti il 2 novembre 2013 Padova, oratorio della Salute messa cantata in
rito tridentino il 14 settembre 2013 Ospedaletto Euganeo Pd, santuario della Madonna
del Tresto, messa tridentina il 30 giugno 2013 2012 Padova, chiesa di S. Canziano vulgo S. Rita,
messa dei Morti il 2 novembre 2012 Padova, chiesa di S. Canziano vulgo S. Rita,
messa cantata in rito tridentino il 28 ottobre 2012 Padova, chiesa di S. Canziano vulgo S. Rita,
messa cantata il 3 giugno 2012 Padova, chiesa di S. Canziano vulgo S. Rita,
messa cantata il 27 maggio 2012 Padova, chiesa di S. Canziano vulgo S. Rita,
messa cantata il 20 maggio 2012 Padova, chiesa di S. Canziano vulgo S. Rita,
messa cantata il 26 febbraio 2012 Padova, chiesa di S. Canziano vulgo S. Rita,
messa di riparazione il 29 gennaio 2012 2011 Padova, chiesa di S. Canziano vulgo S. Rita,
messa cantata l’8 dicembre 2011 Padova, chiesa di S. Canziano vulgo S. Rita,
messa cantata il 30 ottobre 2011 Padova, chiesa di S. Canziano vulgo S. Rita,
messa dei Morti il 2 novembre 2011 Padova. Messa tridentina alla chiesa di
S. Gaetano Padova, chiesa di S. Canziano vulgo S. Rita,
messa cantata il 2 ottobre 2011 Sambruson di Dolo, 11 settembre 2011.
Nozze e messa in rito tridentino Sambruson di Dolo (Venezia), chiesa arcipretale
di S. Ambrogio, messa tridentina l’11 settembre 2011 Padova, chiesa di S. Canziano vulgo S. Rita,
messa il 29 maggio 2011 2010 Padova, chiesa di S. Canziano vulgo S. Rita,
messa dei Morti il 2 novembre 2010 Padova, alla Basilica del Santo ritorna
la messa tridentina Padova, basilica del Santo Cappella del Ss.mo
Sacramento messa cantata il 19 giugno 2010 (foto) A Sambruson di Dolo il 14 febbraio 2010.
Messa in rito romano antico per la festa di san Valentino 2006 Nuovo altare a San Canziano. A rischio il Natale
in latino (Corriere del Veneto, 16 dicembre 2006) 2004 Padova, finalmente la messa cantata a S.
Canziano 2003 2001 A messa, ma in latino (Il Mattino di Padova, 28
marzo 2001) Crisi delle vocazioni e crisi della
messa (Instaurare 1-2/2001) S. Canziano. I Santi titolari Quasi
dieci secoli sono passati da quando un modesto gruppo di fedeli chiedeva al
Vescovo l’autorizzazione ad erigere un “oratorium”, dedicandolo ai martiri di
Aquileia. Quella
Domus Dei, quella chiesa, ove Cristo Gesù scendeva ad accendere una fiammata
d’amore tra le anime e il loro Redentore, non si è mai chiusa, né mai si è
spento quel fuoco, né si è interrotto quel dialogo tra Cielo e terra.
Generazioni e generazioni si sono prostate nella preghiera: altre verranno in
questo tempietto, fatto più bello dall’arte e dallo zelo. Tra le vicende
umane, nei dolori e nelle ansie, trovino qui i credenti l’onnipotente e
misericordioso amore di Dio (mons. A.
Barzon, numero unico pubblicato in occasione dei restauri del 1955) Santa Rita Conoscere la
chiesa di S. Canziano 1. I santi
titolari La chiesa è
dedicata ai santi fratelli Canziano, Canzio, Canzianilla e a Proto, martiri
di Aquileia (31 maggio 304). I tre fratelli e il loro maestro Proto, secondo
quanto racconta Venanzio Fortunato, appartenevano alla antica e nobile gente
degli Anicii, stabilitasi ad Aquileia. Scoperti e condannati come cristiani
durante la persecuzione di Massimiano, avevano subito il martirio ad Aquas
Gradatas (Grado). È forse per la dipendenza delle Chiese delle Venezie
alla Chiesa aquileiense che il culto in onore dei martiri trova diffusione
anche a Padova. Sul fregio
del portale si legge: D.O.M.
SANCTISQ. CANTIANO ET SOCIIS MARTYR. PIORUM
OPE IN SPLENDIDIOREM / FACIEM CULTUMQUE RESTITUTUM M.D.C.XVII. (A Dio Ottimo
Massimo, ai santi Canziano e compagni martiri, grazie alle offerte dei fedeli
ricostruito con più sontuosa forma e ornamento 1617) 2. La chiesa
nella storia della città La data 1617
indica la conclusione dei lavori di ricostruzione ed ampliamento della chiesa
primitiva, una delle più antiche della città, citata in un atto notarile del
1034 e gravemente danneggiata dal disastroso terremoto del 1117 e dal
terribile incendio del 1174. Questi lavori, iniziati presumibilmente qualche
decennio prima, comportarono anche un cambiamento di asse, trasferendo la
zona presbiteriale da est a sud, ma lasciando inalterato il campaniletto
romanico che ancora oggi spunta tra i tetti delle case vicine. Il restauro
del 1955 ha messo in luce, sul fianco destro della attuale costruzione, parte
della vecchia facciata con il rosone ed alcune finestrelle, di un periodo che
si ritiene successivo al 1117. La chiesa,
benché piccola, forse per la sua posizione centrale, fu luogo di solenni
cerimonie, come quella del 9 giugno 1180, durante la quale venne firmata la
pace tra i Signori da Camino e gli abitanti di Conegliano. 3.
L’architettura La facciata
riprende il motivo dell’arco di trionfo romano ed è sempre stata giudicata in
modo positivo dagli storici dell’architettura; in passato, addirittura, si è
fatto il nome di Palladio, mentre ora si è più propensi ad attribuirla ad un
architetto locale di cultura palladiana, come Vincenzo Dotto o Giambattista
della Sala. La scelta di evitare nel prospetto forti scansioni di piani
appare suggerita dalla consapevolezza di dover operare in un ambito urbano
ristretto, con condizioni di visibilità obbligate dallo scorcio. Dal basso,
dove si impongono le masse continue dei piedestalli delle semicolonne, gli
elementi salgono con progressivo frazionamento ed alleggerimento fino ad
arrivare ai dadi dell’attico e alle statue di coronamento, pensate come
transizione tra il pieno e il vuoto luminoso del cielo. La
sensibilità dell’architetto si rivela anche nell’accostamento dei materiali:
il laterizio lasciato a vista, l’intonaco, la pietra arenaria, non solo
creano piacevoli variazioni di tessitura, ma anche un effetto cromatico che
dà vivacità all’insieme. Forse, nelle intenzioni dell’architetto, la facciata
si sarebbe dovuta proiettare sulla parete di fondo, dove, in effetti, le
lesene sembrano riproporre, appiattite, le semicolonne esterne con i loro
intervalli. Se compiutamente realizzato, questo espediente compositivo
avrebbe stabilito una certa connessione ottica tra l’esterno e l’interno. Ma,
in realtà, la facciata appare come un’entità autonoma, incapace di riflettere
l’organizzazione interna che, del resto, non appare risolta in modo
convincente. L’aula centrale è affiancata da ambienti laterali, difficilmente
rapportabili al centro, che per la loro limitatezza ed irregolarità, più che
a navate, fanno pensare a spazi di risulta, in funzione degli altari. 4. La
scultura Nella
facciata, all’interno di nicchie poste tra gli intervalli delle semicolonne,
due statue in pietra tenera rappresentano la Purezza e l’Umiltà. La prima è
riconoscibile per il velo che le copre il capo e per il giglio che porta
nella mano destra, la seconda per l’agnello che stringe al petto. Sono opera
del padovano Antonio Bonazza (1698-1763), figlio dello scultore
Giovanni. Grazie a lui, nella prima metà del ‘700, Padova riesce a diventare
uno dei centri più vivi del Veneto nel campo della scultura e sede di
un’importante scuola, attiva fino agli ultimi anni del secolo. Antonio, pur
espertissimo nel mestiere, non amando abbandonarsi a virtuosismi, dà alle sue
figure atteggiamenti spontanei che, però, non alterano quella compostezza
aristocratica che assicura loro morbidezza e fluidità di linee. Tra i
numerosi allievi di Giovanni Bonazza, si pone anche Pietro Danieletti (1712-1779),
autore dei quattro Evangelisti posti sopra l’attico e dei due bassorilievi
con episodi della vita di san Canziano - il rifiuto di tributare il culto al
simulacro dell’imperatore e il martirio -, sistemati sopra le nicchie.
Danieletti, autore anche di numerose statue per il Prato della Valle, è uno
scultore dignitoso, poco portato per composizioni complesse e con problemi di
movimento. Invece le statue degli Evangelisti, chiaramente riconoscibili per
i loro attributi tradizionali (l’aquila e il calice per Giovanni, l’angelo
per Matteo, il leone per Marco e il toro per Luca), forse per la loro
posizione e la loro funzione di passaggio tra l’architettura e il cielo,
presentano un profilo frastagliato ed appaiono insolitamente mosse. All’interno,
ai lati dell’altare maggiore, entro nicchie, sono poste statue in terracotta
che, secondo la tradizione, rappresentano i santi Agnese ed Enrico, a
sinistra, e Anna e Girolamo, a destra. In realtà, solo san Girolamo è ben
riconoscibile: la veste del penitente, il leone cui aveva tolto la spina
dalla zampa e che gli era diventato compagno inseparabile, la pietra con cui
si batteva il petto per vincere le tentazioni e il libro della Vulgata, non
lasciano dubbi. Le altre figure, per mancanza di attributi specifici, non appaiono
invece chiaramente individuabili. Le statue facevano parte di un complesso
andato smembrato in occasione delle trasformazioni del tardo ‘500 e qui
risistemate in seguito, ma in modo casuale, in un contesto diverso da quello
primitivo. Se si esclude la figura di sant’Anna, un po’ più piccola delle
altre ed attribuita per il suo eccessivo naturalismo ad un artista legato ai
modi di Bartolomeo Bellano, le altre statue sono concordemente assegnate ad
uno scultore trentino di nascita, ma padovano di elezione: Andrea Briosco. Andrea
Briosco (1470-1532), detto il Riccio o
anche, alla latina, Crispo, per la sua capigliatura, giunge giovanissimo a
Padova, dove si forma alla bottega di Bartolomeo Bellano, che era stato, a
sua volta, allievo di Donatello. Andrea assume anche incarichi di architetto,
ma è nella scultura, soprattutto in terracotta e bronzo, che raggiunge i
risultati più alti, tanto da diventare uno dei protagonisti della scultura
veneta dei primi decenni del ‘500, prima della diffusione del maturo classicismo
del Sansovino. Riccio si esprime con una vivacità naturalistica che,
attraverso Bellano, gli viene da Donatello, ma che trova anche affinità con
quella componente locale che era stata alla base della “maschia virtù
d’Andrea Mantegna”. Per questo, pur subendo il fascino di quel classicismo
che s’imponeva a Venezia con Tullio e Antonio Lombardo, di tale classicismo
egli dà un’interpretazione libera e personale. Sempre del Riccio è il Cristo
in terracotta, unica parte rimasta nella chiesa di un compianto che i
contemporanei avevano ammirato e che Scardeone aveva definito
“speciosissimum”. Con il
termine compianto, si indica la rappresentazione del momento
immediatamente successivo alla Deposizione dalla Croce: attorno al corpo di
Cristo steso al suolo si dispongono delle figure piangenti. Due Marie che
facevano parte del gruppo sono ora conservate al Museo Civico. Solitamente,
in rappresentazioni di questo tipo, legate ad una forma di religiosità
popolare, per suscitare una più commossa reazione nei fedeli, gli
atteggiamenti delle figure assumono una violenta intensità espressiva che
porta a drammatiche deformazioni. Qui, invece, come accade anche nelle altre
opere tarde del maestro, il linguaggio appare controllato a favore di un
maggiore rigore formale: il braccio destro si distende lungo il corpo, il
sinistro si piega e la mano trova appoggio sull’anca; mancano le contrazioni
muscolari e gli irrigidimenti di tante immagini nordiche che sembrano
compiacersi di verità impietose. La drammaticità sembra sciogliersi in
tristezza: i capelli e la barba scomposti introducono una nota di sofferto
realismo che, tuttavia, non altera l’espressione di contenuta, dolorosa
partecipazione. 5. La pittura La prima metà
del ‘700 vede attivi a Padova alcuni pittori francesi, tra i quali il
parigino Lodovico di Vernansal (1689-1749) il quale, prima di
stabilirsi in città, aveva soggiornato a Venezia per studiare a fondo la
pittura dei grandi maestri del ‘500. Sulla facciata della chiesa di S.
Canziano, caso singolare in città, dipinse a fresco La Vergine
Immacolata con i Santi titolari. L’affresco, gravemente danneggiato dal
tempo, è stato restaurato nel 1955, ma le condizioni in cui oggi si trova,
lasciano appena intendere il raffinato gusto per gli accostamenti di colore e
la suggestiva composizione. Il soggetto dell’Immacolata compare tardi nella
pittura, un po’ per le controversie sul tema che vedevano domenicani e
francescani su posizioni opposte, un po’ per la difficoltà di stabilire una
convincente iconografia. Nel ‘500 comincia a trovare diffusione il tema della
Disputa: la Vergine in piedi o genuflessa davanti all’Eterno ha, più
in basso, alcuni dottori della Chiesa che, ad indicare il dibattito che si
sviluppava attorno all’argomento, appaiono intenti a discutere ed a
consultare i propri libri. Più tardi, a partire dalla Controriforma, con il
nuovo impulso dato al culto della Vergine, si afferma rapidamente un nuovo
schema che, però, concettualmente pare risalente a san Bonaventura e i cui
caratteri essenziali sono quelli della donna incinta dell’Apocalisse,
“vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di
dodici stelle”. A volte, come in questo caso, i due tipi iconografici si
combinano: in alto è presente la Vergine incoronata di stelle, circondata da
cherubini, con ai piedi la falce di luna e, in basso, al posto dei dottori
che discutono, i quattro santi martiri di Aquileia. Una soluzione
simile era stata adottata un secolo prima da Alessandro Varotari
(1588-1648), detto il Padovanino, nella pala sopra l’altare maggiore. Qui,
oltre alla Vergine Immacolata che porge a san Canziano e compagni i rami di
palma, compaiono, in basso, anche le figure di san Girolamo, a sinistra - il
muso del leone, verso il bordo del dipinto, è in parte nascosto dalla figura
del santo - e di san Michele Arcangelo che, armato di spada, sta per colpire
Satana, rappresentato sotto i suoi piedi con sembianze semiumane. La presenza
di questi due santi è legata alle intenzioni del benefattore che, a sue
spese, aveva fatto erigere l’altare. Una iscrizione in latino, ora perduta,
posta a fianco del nuovo altare maggiore diceva: “a D.O.M. e alla Beata Madre
di Dio Maria e ai santi Canzio, Canziano, Canzianilla e Proto, martiri, a san
Michele e san Girolamo protettori, Girolamo Tirabosco, a sue spese, questo
altare eresse, ornò, fornì e poiché è memore della sua mortalità, mentre è
ancora vivo, pone dappresso un sepolcro per sé e per i suoi. A.D.MDCII.” La
composizione del Padovanino segue quelli che erano diventati i comuni canoni
del manierismo: gesti declamatori che si legano in rapporti chiastici, figure
che si avvitano, predilezione per le parti scorciate; ma i colori acidi e
cangianti tipici di tanti manieristi sono sostituiti da tonalità calde che
dimostrano come il pittore, per il quale si parla anche di
“neocinquecentismo”, cercasse un riavvicinamento ai modelli classicistici e
tizianeschi. L’Immacolata doveva
godere di un culto particolare in questa chiesa, perché anche sull’altare
della parete di destra compare una sua immagine. Questa pala è di Francesco
Zanella, un pittore padovano attivo in città e nei dintorni tra il ‘600 e
il ‘700. Le sue opere, molto stimate dai contemporanei, lo avevano fatto
avvicinare, per la facilità d’ideazione e la velocità di esecuzione, al
famoso pittore napoletano Luca Giordano, soprannominato, appunto, “Luca fa
presto”. La sua Immacolata è la più aderente al modello iconografico: la
fanciulla, le mani sul petto strette in preghiera, è posta sulla falce di
luna e schiaccia la testa al serpente. La tela ha un evidente intento
didascalico, ma la grande semplicità di composizione bene si accorda con il
formato di piccole dimensioni e con la efficace soluzione di esaltare la
figura della fanciulla con il forte contrasto tra il canonico bianco e
celeste della veste e il blu scurissimo del fondo. Stipata di
figure è, invece, la pala vicina, presso l’ingresso. Rappresenta la Pentecoste
ed è di un ignoto pittore del ‘600: a Gerusalemme, nel cenacolo, sui
discepoli raccolti con Maria, scende lo Spirito Santo sotto forma di lingue
di fuoco, tra un turbine di vento e un fragore di tuono. Dopo il medioevo,
l’episodio è rappresentato non molto di frequente; la cosa sorprende se si
considera che esso costituisce un momento essenziale della storia del
cristianesimo. Può darsi che, in parte, ciò sia dipeso anche dalla ritrosia
dei pittori a trattare in modo naturalistico un tema che esigeva la
disposizione obbligata della Vergine al centro e la necessità di trovare, per
le figure degli apostoli, espressioni estatiche ma sufficientemente variate
ed atteggiamenti che, pur adatti alla situazione, non creassero confusione
nella scena. Inoltre, per la necessaria aderenza al testo sacro, malgrado
l’inevitabile sovrapposizione delle figure, tutti i dodici apostoli avrebbero
dovuto essere ben visibili. L’autore che, per l’uso del colore e per il modo
di trattare i volti, mostra di esprimersi con un linguaggio immediato e molto
popolaresco, fa ricorso all’espediente, che era ormai entrato nel comune
bagaglio di conoscenze dei pittori, di disporre i personaggi su una scalinata
avendo, così, la possibilità di scalarle in altezza. Nella parete
di sinistra, tre pale presentano momenti della vita di san Carlo, di san Rita
da Cascia e di sant’Antonio. San Carlo Borromeo in processione con un
crocifisso è opera del pittore padovano Giovan Battista Bissoni
(1576-1634). San Carlo è una delle figure più frequentemente rappresentate
nella pittura della Controriforma; ha caratteristiche somatiche ben definite:
naso aquilino, fronte alta, carnagione scura. Spesso, come in questo caso; lo
si vede mentre procede in processione tra figure imploranti di appestati. San
Carlo è, infatti, visto come esempio di carità cristiana per il suo eroico
comportamento durante l’epidemia del 1576 a Milano. Nella scena si dà poca
importanza ai personaggi di contorno, trattati in modo sommario, così da
portare all’attenzione sul santo e, soprattutto, sulla figura del crocifisso
che, reso come fosse non una scultura, ma un corpo reale sulla croce, si
piega in avanti, quasi a voler stringere in un abbraccio la folla dolorante.
I colori cupi rendono bene l’atmosfera pesante di tragedia che aleggia sulla
città. All’inizio
del Novecento, in questa chiesa viene introdotto il culto di santa Rita da
Cascia appena canonizzata, culto tuttora particolarmente vivo; anzi, per i
padovani la chiesa di S. Canziano è la chiesa di S. Rita. Ogni giovedì molti fedeli
assistono alla messa in suo onore e il 22 maggio, giorno della sua festa, vi
è la partecipazione, lungo tutta la giornata, di una folla di devoti. L’altare
dedicato alla santa risale al 1930 e la pala posta sopra di esso, eseguita in
modo diligente e con perizia tecnica, è opera della pittrice Cecilia
Pivato Caniato (1886-1966): vi è raffigurata la santa, in abiti
agostiniani, seduta ed in atteggiamento di assorta preghiera; dal cielo
scende un angelo che le mostra la corona di spine; alla sua destra una
consorella l’assiste e ai suoi piedi è presente una fanciulla con un mazzo di
rose. La pittrice ha mostrato simultaneamente due momenti particolarmente
significativi della vita della Santa. Rita desiderava di poter condividere
con Nostro Signore i dolori della Passione e un giorno, mentre pregava il
Redentore di esaudirla, sentì una spina della corona che le si conficcava in
fronte, lasciandole una piaga profonda. Negli ultimi anni della sua vita,
costretta all’immobilità, per le fatiche e i digiuni cui si sottoponeva,
chiese ad una parente che era andata a visitarla una rosa del suo giardino.
Il desiderio sembrava assurdo perché si era in inverno, ma la parente,
recatasi nell’orto, con enorme stupore trovò delle rose appena sbocciate. La
santa ringraziò Gesù per il miracolo, e da allora, la Santa della spina
diventò anche la Santa delle rose. Sopra la
porta della sacrestia si trova una grande tela di Pietro Damini (1592-1631),
Il miracolo del cuore dell’avaro. Nato a Castelfranco e trasferitosi a
Padova in giovane età, Damini opera quasi esclusivamente in città e qui muore
nel 1631, durante la grande peste. Dopo aver guardato a Palma il Giovane e
aver adottato i modi tardo-manieristici, si avvicina alla pittura del
Veronese, facendo, però, uso di tonalità scure e terrose. Sant’Antonio aveva
predicato spesso contro l’avarizia e l’usura e per convincere i fedeli della
gravità di tale peccato, al funerale di un avaro, compie un miracolo
dimostrativo, realizzazione letterale della affermazione che si trova in san
Luca: ubi est thesaurus tuus, ibi et cor tuum erit; aperto il torace
del defunto lo si trova, infatti, privo del cuore che viene poi rinvenuto nel
forziere del tesoro. Il miracolo è stato illustrato varie volte da pittori e
scultori che hanno sempre cercato di rappresentare in modo realistico la
reazione di sgomento degli astanti. Qui, al contrario, nessuno dei presenti
mostra particolare turbamento, assistendo con distacco all’evento miracoloso.
Il pittore più che rendere la drammaticità della scena per cercare di
coinvolgere il fedele, sembra voglia offrirgli una occasione per meditare
sull’insegnamento che l’episodio porta con sé. Liberando l’immagine dalla
coerenza storica per portarla sul piano della riflessione personale, il
pittore pone accanto alla figura del Santo, la sua e quella del famoso
Fabrizio d’Acquapendente. Giamberto Scorzon
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