Messe latine antiche nelle Venezie
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Stiamo freschi?

Paolo Granzotto, rispondendo su Il Giornale del 18 gennaio 2009 (riprodotto qui sotto) a Mansueto Bassi, rappresentante di Una Voce delle Venezie a Mantova, gli chiede se l'affermazione che nell'applicazione del Motu proprio Summorum Pontificum "tutto è lasciato alla sensibilità e alla cultura di vescovi, clero e fedeli" siano parole di conforto o piuttosto di rassegnazione. Secondo noi per applicare il Motu proprio basta voler obbedire al Papa, e la virtù dell'obbedienza, per fortuna, non necessita di grande "cultura". Se per farlo fosse invece  indispensabile un coefficiente anche medio-basso di sensibilità e cultura, staremmo freschi.

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La messa in latino?

Dopo 40 anni
un ritorno difficile

 

Caro Granzotto, ho letto la recente lettera del Sig. Diogene riguardante la Messa in latino. Sono perfettamente d'accordo sulla prima parte dove dice "ero in grado di comprenderla e quindi non nascondo il mio rammarico per l'improvvida decisione della Chiesa di sostituirla con Messe celebrate nella lingua del Paese". Non sono invece d'accordo sul seguito "sono tornato ad assistere a una funzione in versione gregoriana tipo 1400: un'ora e mezza di sofferenza fra cantilene strascicate e parole pressoché incomprensibili (...) credo sia stato un gravissimo errore ripristinarla dopo 40 anni". In una chiesa di Mantova, da quasi 5 anni, viene celebratala S. Messa tridentina nei giorni di sabato e pre-festivi e credo che nessuno dei presenti alla celebrazione sia turbato da "parole incomprensibili" o da "cantilene". Come si può non capire il latino della S. Messa che non è quello aulico di Cesare e Cicerone? Chi non comprende "introibo ad altare Dei" o "et vidimus gloriam Ejus"? Ha fatto bene il S. Padre con il Motu Proprio a liberalizzare la S. Messa tridentina. Non sarebbe bello se nelle chiese di tutti gli Stati, ci sentissimo un po' più europei e non semplici sudditi di Eurolandia?

Mansueto Bassi, scriptor@tin.it - Mantova

 

Quarant'anni, caro Bassi. Tanti ne sono passati da quel 3 aprile 1969, giorno in cui Paolo VI promulgò l'edizione del nuovo Messale che faceva riferimento non più al Concilio tridentino, ma a quello Vaticano II. E quarant'anni contano: un paio di generazioni sono cresciute senza aver mai udito, dal celebrante o dai fedeli raccolti in preghiera, una sola parola in latino che non fosse "amen". Molti altri, ai quali la preghiera eucaristica in latino era pur familiare, col tempo hanno finito per dimenticarne l'accezione. Stesso discorso per le note e gli inni: l'irruzione nella casa di Dio di strumenti quale la chitarra, il bongo addirittura, ha reso muto l'organo il cui suono, fino al '69, aveva sempre riempito di sé le navate. E nuovi canti di pronunciato timbro sociologico, stillanti zelo "nel sociale", hanno sostituito quelli, forse troppo ingenui, forse troppo poco "impegnati", d'un tempo. Sono pienamente d'accordo con lei, caro Bassi: non dovrebbe essere necessario saper maneggiare con disinvoltura il piuccheperfetto passivo o l'ablativo per capire cosa significhi "introibo ad altare Dei". Però un minimo sforzo, una seppur fulminea riflessione occorre farla, se del latino si sa solo che è una lingua morta. E di gente disposta a mettere in movimento le cellule grigie per cogliere il senso d'una espressione latina, io ne vedo pochina in giro. Sa, quando si sente alla televisione di Stato (un servizio pubblico mi par di ricordare) pronunciare "saindai" sine die o "aiter" iter, c'è poco da star allegri. Certo, se la celebrazione della Messa in rito tridentino diventasse, o meglio, tornasse a essere la consuetudine, i danni di quasi mezzo secolo di bando sarebbero presto riparati. Però lei sa meglio di altri quanto poco sia disposto il clero a rinunciare al volgare, alla liturgia creativa e alle chitarre (per non parlare dei jeans e delle magliette in sostituzione della tonaca). Monsignor Camille Perl, Segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha recentemente affermato che l'applicazione del Motu Proprio di Benedetto XVI è "in una situazione né positiva, né negativa, bensì aperta" e che tutto è lasciato "alla sensibilità e alla cultura" di vescovi, clero e fedeli. Lei cosa ne pensa, caro Bassi, sono parole di conforto o di rassegnazione?

Paolo Granzotto

 

da "Il Giornale", 18 gennaio 2009

 

 

 

 

 

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Inserito il 20 gennaio 2009

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