Messe latine antiche nelle Venezie
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Dalle annotazioni sul sacrificio della messa del Card. Lambertini

Della messa dalla comunione
fino alla fine

 

CCCLXXVII. Abbiamo interrotto, con interruzioni però non importune il corso della messa: ed ora ripigliandolo, diremo, che il celebrante dopo essersi comunicato, ed aver presa l'abluzione, e dopo essersi comunicato, ed aver comunicati gli astanti, e dipoi presa l'abluzione, dal mezzo dell'altare va al corno dell'epistola, ove dal ministro è stato portato il messale, recita l'antifona chiamata comunione, poi ritorna la mezzo dell'altare, lo bacia, si volta verso il popolo, dicendo: Dominus vobiscum, ritorna al libro, dice l'orazione chiamata Postcommunio; poi serra il messale. Ritorna al mezzo dell'altare, lo bacia di nuovo, si rivolta di nuovo verso il popolo e dice Dominus vobiscum, e stando in questa positura, nelle messe, nelle quali può dire l'Ite missa est, lo dice, rispondendo il ministro Deo gratias, dicendo in altre messe, nel rivoltarsi all'altare, Benedicamus Domino, e rispondendo pure il ministro Deo gratias, e dicendo nelle messe dei morti, nel rivoltarsi pure verso l'altare, Requiescant in pace, e rispondendo il ministro Amen. Finalmente stando rivoltato il celebrante verso l'altare, recita l'orazione Placeat, si rivolge al popolo e dà la benedizione, fuorché nelle messe de' morti e passando alla parte del vangelo, recita il vangelo di s. Giovanni, se la rubrica lo permette e se diversamente è prescritto dalla rubrica recita un altro vangelo.

CCCLXXVIII. L'antifonia predetta si chiama Communio, perché si cantava, mentre il popolo si comunicava, come ben osserva il Gavanto. Se ne fa menzione negli ordini romani. Cantavasi alternativamente, ripetendosi ciaschedun versetto del salmo, di cui è composta. Il cardinal Tommasi ha pubblicato un esempio del salmo della comunione cantato in antifona. Seguitava il canto, finattantoché il pontefice, che celebrava la messa dava cenno, che si finisse, e si dicesse il Gloria Patri, come si vede nel primo Ordine romano al num. 20. "Mox, ut pontifex coeperit in senatorio communicare, statim schola incipit antiphonam ad communionem per vices cum subdiaconibus; et psallunt, usque dum communicato omni populo, annuat pontifex, ut dicant Gloria Patri: etc. tunc repetito versu quiescunt". Questa parte della messa, in cui si dicono il Communio ed il Postcommunio, aveva il nome di Gratiarum actio, come dice Ruperto De divinis officiis al lib. 2 cap. 18. "Cantus, quem com-

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munionem dicimus, quem post cibum salutarem canimus, gratiarurn actio est": il che molto tempo prima era stato detto da s. Agostino nell'epistola 149 altre volte 59. "Participato tanto sacramento, gratiarum actio cuncta concludit". All'antifona detta Communio, sieguono le altre orazioni chiamate Postcommunio, dicendosi immediatamente dopo la comunione, per ringraziare Iddio della felicità d'aver partecipato dei divini misteri, e per domandargli la grazia di conservarne in noi il frutto e tutto ciò, che può operare la nostra santificazione. Quest'orazione in alcuni luoghi è chiamata Complenda, ossia Oratio ad complendum che è lo stesso che dire, orazione per finire: e nella rubrica del messale si dice, che tante orazioni si dicono in questa parte della messa, quante se ne sono dette nel principio: "Multiplicans, l'orazione detta comunione, secundum numerum collectarum in principio missae, et secretarum ante canonis praefationem praemissarum": disse il Biel nella lez. 39 sopra il Canone della messa alla pag. 918. Nella quaresima nella messa feriale dopo le orazioni chiamate Postcommunio il sacerdote dice l'orazione, profferendo queste parole: "humiliate capita vestra Deo, e soggiungendo: inclinantes se, Domine, maiestati tuae propitiatus intende, ut qui divino munere sunt refecti, coelestibus semper nutriantur auxiliis. Per Dominum etc.". Antichissima è quest'orazione, come si raccoglie dal Sacramentario gelasiano stampato dal più volte nominato cardinal Tommasi, e non dicevasi nella sola quaresima, ma in tutto l'anno ed oggi si dice nei predetti soli giorni di quaresima, per armare coll'aiuto divino il popolo contro le insidie del demonio che sono più fiere in quei giorni di penitenza, come spiegano Amalario nel lib. 3 De divinis officiis al cap. 37 e il Micrologo al cap. 51 De ecclesiasticis observationibus.

CCCLXXIX. Dell'Ite missa est si è parlalo altrove, quando da noi fu detto che finita la messa de' catecumeni, erano essi licenziati dal diacono e finita la messa, alla quale assistevano gli altri fedeli, erano essi licenziati pure dal diacono colle parole Ite missa est. Secondo la corrente disciplina, ogni volta, che nella messa si è detto il gloria in excelsis, si dice l'Ite missa est, e quando non si dice il gloria in excelsis, si dice il Benedicams Domino, per invitare il popolo a ringraziare Iddio del compiuto sacrifizio della messa: "Semper cum Gloria excelsis, etiam Te Deum, et Ite missa est recitamus": disse il Micrologo al cap. 46. Il senso dell'Ite missa est è il seguente: "Vobis abire licet; nam fit missa, idest

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dimissio". I greci usano un altro modo di parlare, finendo la messa col dire: "In pace Christi eamus" come si vede nelle liturgie dei ss. Giacomo, Basilio e Grisostomo; e rispondendo il popolo In nomine Domini. Il cardinal Bellarmino nel tom. 3 delle sue Controversie al lib. 6 De missa cap. 27, osserva dopo il Micrologo che dicevasi l'Ite missa est nelle messe de' giorni festivi, perché a quelle per lo più il popolo assisteva; ma non dicevasi nelle messe feriali, perché a quelle per lo più assistevano i chierici ed i monaci che non si licenziavano, dovendo restare a proseguire l'officio; e benché questo motivo potesse indurre a dover dire l'Ite missa est, e non il Benedicamus Domino, nelle domeniche dell'Avvento e della quaresima, aggiunge, dirsi in queste domeniche il Benedicamus Domino, e non l'Ite missa est, per significare la mestizia di quel tempo: "Videtur enim nescio quid lugubre prae se ferre, quod non publica denunciatur dimissio, sed unusquisque per se discedit". Parla pure dell'Ite missa est il cardinal Bona Rer. Liturgic. al lib. 2 cap. 20 num. 3 ove riprova il Micrologo, dicendo che per sostenere il suo assunto sarebbe stato d'uopo che avesse provato, che alle messe quotidiane il popolo non intervenisse; conchiudendo essere stato tralasciato l'Ite missa est, quando i fedeli finita la messa non partivano subito dalla chiesa, ma restavano in essa sino al fine delle preci canoniche ed essere stata dipoi estesa quest'usanza anche alle messe meno solenni e quotidiane. Circa poi il Requiescant in pace, il Belleto al cap. 49 dice essersi ciò introdotto per consuetudine generale: "Dicitur in missa pro defunctis, "requiescant in pace", quod ex sola consuetudine generali natum est"; o perché tutta l'occupazione nelle messe de' morti è per procurare ad essi il sollievo; o perché dopo la messa non conveniva congedare il popolo, restando la funzione della sepoltura del cadavere, ed il proseguimento d'altre preci per l'anima de' defunti. Il Vert nel tom. 1 alla pag. 141 e nel tom. 3 alla pag. 416 sopra le parole Deo gratias, che si dicono dopo l'Ite missa est, ed il Benedicamus Domino, dice ch'è un'aggiunta: lodando i chierici della Chiesa di Parigi, che dette nella messa solenne dal diacono le parole "Ite missa est, o Benedicamus Domino", partono correndo, senza rispondere Deo gratias. Ma il P. Le Brun nel tom. 1 alla pag. 668 dimostra l'antichità dei Deo gratias dopo le predette parole; ritrovandosi in Amalario e negli ordini romani; e riflette doversi preferire l'uso de' monaci Certosini all'abuso de'chierici di Parigi; perché sebbene i detti monaci non danno la bene-

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dizione nella messa, né recitano il vangelo di s. Giovanni, non partono però dopo l'Ite inissa est, ma aspettano il Deo gratias.

CCCLXXX. Conforme si è di già esposto, in questa parte della messa si fanno due saluti al popolo col Dominus vobiscum. Il primo significa quella benedizione, che Cristo nell'ascendere al Cielo diede agli Apostoli, ed il secondo significa la vita eterna nella quale Cristo ascendente entrò quando partì dagli Apostoli; "Prima salutatio ante postcommunionem significat illam benedictionem quam Christus ascensurus in coelum legitur dedisse discipulis suis; nam, ut Lucas ultimo commemorat, eduxit eos foras in Bethaniam, et elevatis manibus benedixit eis. Ultima salutatio vitam aeternam significat, quam Christus ascendens ingressus est, quia cum ab eis recessit, ut consequenter scribit Lucas, ferebatur in coelum"; disse il Biel nella citata lezione alla pag. 918, ed alla pag. 921 dice, che profferendosi l'Ite missa est, il sacerdote sta rivoltato verso il popolo, perché parla al popolo, e che dicendo il Benedicamus Domino, o il Requiescant in pace, non ista rivoltato verso il popolo, ma profferisce le dette parole nel rivoltarsi verso l'altare, perché esorta il popolo ad unirsi seco a benedire il Signore, ed a pregare per le anime dei defunti.

CCCLXXXI. L'orazione Placeat dopo il nono secolo si ritrova in molti sagramentari. Il sacerdote la dice segretamente, essendo sua orazione particolare, e la dice piegato verso l'altare, come conviene, indirizzandola alla santissima Trinità. Quest'orazione si ritrova anche nella messa dell'Illirico, ed in altre appresso il Menardo: e la spiegazione di quest'orazione può vedersi appresso il Biel nella citata Lezione sopra il canone.

CCCLXXXII. Una volta nel fine della messa davano i sacerdoti la benedizione con tre segni di croce, conforme oggi fanno i vescovi. Fu questo rito tolto di mezzo da s. Pio V che lo ridusse alle sole messe cantate, ed il pontefice Clemente VIII è stato quello che ha stabilito, che i preti semplici anche nelle messe cantate non diano che una sola benedizione, come può vedersi nel P. Merati al tom. 1 pag. 243 e dai decreti d'Alessandro VII agli abbati regolari vien data la facoltà di dare nelle messe pontificali le tre benedizioni, con questo però, che ne diano una sola nelle messe non pontificali, come può vedersi nella nostra notific. 14 al § 4 num. 29 del tom. 2. L'uso di dare questa benedizione nel fine della messa non è tanto antico, non parlandone né Amalario, né Floro, né Rabano

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Mauro, né Walfrido, né Remigio scrittori del secolo nono. Ne dice qualche cosa il Micrologo al cap. 21 ove ragionando del popolo, che assiste alla messa, così scrive: "Prius tamen benedicitur ab episcopo, si adest, sin autem, a presbytero, qui missas celebravit". Ma è d'uopo, che ciò non fosse universalmente posto in pratica, non facendosene parola ne' rituali de' cisterciensi e de' premonstratensi, religioni fondate trent'anni dopo il Micrologo. I certosini secondo il rito loro antico non danno la benedizione nel fine della messa o solenne o bassa, come ben avverte il Pouget nel tom. 2 delle sue Istituzioni cattoliche alla pag. 890 e concorda l'antico rito de' cisterciensi, e se ne assegna la ragione da Giovanni Becoffen nell'Esposizione della messa, stampata in Basilea l'anno 1519 ricavata da Giovanni de Indagine, che chi non ha popolo, non dà la benedizione. Danno però oggi i certosini la benedizione nel fine della messa, se la celebrano nelle chiese che non sono del loro ordine, come si raccoglie dalle loro ultime costituzioni stat. 3 compil. cap. 1 num. 58, e nell'antico ordinario de' PP. domenicani al lib. 2 riferito da Marcello de Cavaleri nella sua Statera sacra al tit. 29 num. 50 così si legge: "Et si consuetudo patriae fuerit, et extranei fuerint hoc expectantes, dent benedictionem, iuxta morem patriae". Quanto sinora si è detto, deve intendersi della benedizione, che si dà dai semplici sacerdoti nel fine della messa, ma non già di quella che si dà dai vescovi nel fine della messa essendo questa antichissima: "benedictionem episcopalem martialis episcopus apostolorum discipulus ex magisterio apostolorum tradidit"; sono parole d'Onorio nella Gemma animae al lib. 1 cap. 90 e chi volesse vedere quest'assunto ampiamente provato, può leggere il P. Lupo nel tom. 5 sopra i Concili generali e provinciali alla pag. 526. L'abbate Guido, che visse nel secolo undecimo, e fiorì nell'Italia, parla della consuetudine introdotta che i sacerdoti dessero la benedizione nel fine della messa: "Hinc et illa consuetudo apud modernos quae non fuit apud antiquos, inolevisse videtur, ut in aliis temporibus etiam presbyteri post finem missae benedicant, ne populum ita benedictione, ut communione privatum discedere permittant"; ed altrove: "Adeo in usum iam usquequaque venit haec benedictio, ut nequaquam absque gravi scandalo a presbiteris in populo praetermitti possit, nisi forte apostolica sedes generaliter et synodaliter prohibere voluerit". Resta però molto da dubitare se la consuetudine fosse subito universalmente ricevuta o approvata dalla sede apostolica, mentre Ruperto, che visse nel principio del secolo

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duodecimo, non ne fa parola, e s. Bernardo che visse nel mezzo del secolo duodecimo è costante nel sostenere, non potersi dare la benedizione dagli abbati ancorché insigniti col privilegio degli ornamenti pontificali, ed Innocenzo III parlando di questa benedizione, che si dà nel fine della messa, sempre dice doversi dare dal vescovo, né mai parla de' preti. Oggidì si dà coll'approvazione della santa sede anche dai preti: "Ipsam (dice il P. Lupo nel luogo citato alla pag. 526 parlando di questa benedizione, e della Chiesa romana), iampridem indidit suo missali; adeo potens est consuetudo". Non si dà questa benedizione nelle messe dei morti, ancorché una volta si desse anche in queste messe, dovendosi nelle messe dei morti tralasciare ogni solennità, secondo la corrente disciplina, come ben riflette il P. Le Brun nel tom. 1 alla pag. 685.

CCCLXXXIII. Data la benedizione, o dopo il Placeat nelle messe dei morti il sacerdote va alla parte del vangelo, dice il Dominus vobiscum, fa un segno di croce sul principio del vangelo, ne fa un altro sopra la sua fronte, sopra la sua bocca e sopra il petto, legge il vangelo di s. Giovanni, o il vangelo di qualche festa della quale si fa l'officio, se essa cade nella domenica, dovendosi allora leggere l'evangelio del giorno, e non quello di s. Giovanni, e leggendosi il vangelo di s. Giovanni, quando arriva alle parole Et verbum caro factum est, s'inginocchia per adorare il Verbo divino, che si è voluto abbassare sino a prendere la nostra carne, ed il ministro dice Deo gratias, acciò che la messa finisca sempre col rendimento di grazie. Concordano gli eruditi, che s. Pio V fu quello che stabilì la regola di dover recitare nel fine della messa il vangelo di s. Giovanni, mentre prima di lui alcuni lo recitavano, altri non lo recitavano. Veggasi il card. Bona Rer. liturgic. al lib. 2 cap. 20 num. 5, il P. Le Brun al tom. 1 pag. 687 e seguenti, il Pouget nel tom. 2 pag. 890 ove dice che nemmeno oggidì si legge dai certosini, il P. Merati al tom. 1 part. 1ª pag. 243 ove alla pag. 244 attesta non recitarsi il vangelo di s. Giovanni nel fine della messa da chi oggidì canta la messa nella cappella papale. Guglielmo Burio nel suo libro intitolato Brevis notitia romanorum pontificum così scrive nella vita di s. Pio V: "Inter alia ordinavit, in fine missae a sacerdotibus dici evangelium sancti Joannis (quod ante non ex mandato hinc inde dicebatur), quia est veluti compendium mysteriorum principalium fidei nostrae, sanctissimae Trinitatis, creationis mundi, incarnationis Christi, quae profitetur tunc sacerdos suo et totius Eccle-

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siae nomine". Vi sono finalmente alcune orazioni che si recitano dal sacerdote dopo la messa, che si dicono in rendimento di grazie, fra le quali è l'antico inno Benedicite, come ampiamente dimostra il cardinal Bona nel luogo citato al num. 7.

 

da Prospero Card. Lambertini Benedetto XIV, Annotazioni sopra il santo sacrifizio della Messa secondo l'Ordine del calendario Romano, Torino, Speirani e Tortone, 1856, p. 256-262.

 

 

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Inserito il 24 gennaio 2011

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