Messe latine antiche nelle Venezie
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Lex orandi, lex credendi...
et lex canendi*

di Massimo Bisson

 

Il Bollettino Ceciliano, storica rivista di musica sacra dell'Associazione Italiana Santa Cecilia, nel numero 12 del 2009 pubblica un editoriale del direttore, il rev. Valentino Donella, intitolato "Sull'uso della messa anteriore alla riforma". L'autore, pur non manifestando particolare attaccamento al vecchio rito, esprime tuttavia interessanti ed equilibrate riflessioni in merito all'applicazione del motu proprio Summorum Pontificum.

Per conoscere direttamente il clima che si respira tra i fedeli che decidono di seguire la Messa antica, Donella ha voluto frequentare per un certo periodo le celebrazioni che si svolgono in una chiesa della sua città: da questa esperienza ha ricavato alcune impressioni sui fedeli e sulle motivazioni che, a suo avviso, li spingono a tale scelta: per alcuni - gli anziani - può essere la nostalgia dei tempi andati; per altri - più giovani - la curiosità nei confronti di cerimonie mai viste ma cariche di fascino.

Nel punto nodale dell'articolo, l'autore riconosce che la Messa tridentina soddisfa quella ricerca di raccoglimento altrove impossibile, tanto da diventare per molti "un'ultima spiaggia per evitare la Messa corrente troppo disturbata, troppo manipolata, troppo chiassosa". Chi segue il Bollettino ceciliano non si stupisce affatto di tali termini: da anni, infatti, Valentino Donella - da sacerdote, musicista e compositore - denuncia lo stato di totale sfacelo in cui versano normalmente le celebrazioni secondo il nuovo rito e, in particolare, il livello scandaloso dei repertori musicali in esse eseguiti, frutto di ignoranza, lassismo, disinteresse da parte di vescovi, preti e fedeli.

Il direttore del Bollettino, inoltre, dimostra di avere compreso appieno diversi aspetti del rito antico - cosa abbastanza rara tra i sacerdoti - sapendone addirittura cogliere le peculiarità più profonde: il significato dei lunghi silenzi, il valore del celebrante che fa da "ponte tra Dio e i credenti", "sospeso fra cielo e terra [...] a riassumere le preghiere di tutti", la partecipazione dei fedeli "che non si basa su gesti esteriori, ma sul far propri i sentimenti di Cristo"; e poi ancora il latino che "funge da velo pudico oltre il quale è custodito il mistero". Da tutto questo scaturisce, secondo l'autore, il "senso di sacralità" della Messa tradizionale, che proietta in una "dimensione soprannaturale, in faccia all'Eterno".

Eppure tutto questo non lo sembra convincere del tutto: anche la "Messa riformata - sostiene Donella - ha i suoi tratti positivi, una sua preziosa diversità e tante ricchezze che aspettano di essere evidenziate e godute". Tra queste ven-

 

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gono enumerate una serie di peculiarità che, soprattutto nell'ambiente tradizionale, non suonano affatto originali: l'uso della lingua volgare che sarebbe una "porta spalancata perché tutti possano entrare nel santuario liturgico"; "l'enorme offerta di letture" che condurrebbe finalmente alla conoscenza della Sacra Scrittura, attraverso la quale "esercitare una vivace pastorale liturgica"; l'introduzione della preghiera dei fedeli, eccetera. Tutte caratteristiche che secondo molti hanno invece ridotto la Santa Messa ad una specie di conferenza, a volte noiosa, a volte ripetitiva, talora addirittura detestabile e certamente meno efficace dal punto di vista devozionale.

Tra tutte le qualità del nuovo rito, quella che l'autore sembra apprezzare maggiormente è "la possibilità di organizzare di volta in volta la celebrazione secondo una prestabilita regia": le rubriche nel messale paolino, infatti, sono assai lasche e concedono al celebrante una serie di alternative e di arbitri assolutamente assenti in quello di Pio V e, in generale, fuori luogo nella mentalità liturgica antica.

È pur vero che una certa ratio 'creativa', entro determinati limiti, era esercitata anche dai maestri di cerimonie di un tempo: questi, tuttavia, avevano alle spalle un enorme bagaglio culturale e teologico, consolidate consuetudini, buon gusto e molta prudenza. La loro attività, inoltre, era concentrata nelle chiese principali di una città o di uno Stato e faceva scuola alle chiese minori che, nel loro piccolo, gareggiavano nell'imitare il fasto di quelle più importanti.

Ora, invece, si pretenderebbe che ogni prete fosse in grado di discernere con simile consapevolezza e sapienza il modo in cui condurre una cerimonia religiosa, valendosi della sola ispirazione personale e della propria conoscenza in questo campo, generalmente limitata a qualche Messa stile boy scout nel seminario o al campo scuola.

La generale anarchia esplosa un quarantennio fa' in concomitanza con la riforma liturgica - piaccia o non piaccia - fu un atto di ribellione alla fissità di tanti secoli, ormai sentita come inutile orpello: il nuovo rito romano, dunque, ne uscì profondamente semplificato e perse quell'inscindibile legame con la cerimonia che era invece connaturato a quello antico.

In tutto questo si inserisce anche l'immensa questione musicale. L'abbandono e il rifiuto della lingua latina hanno di fatto spazzato via qualsiasi repertorio antico, dal canto gregoriano (che è tuttora, sebbene solo formalmente, il canto proprio della Chiesa latina) alla polifonia antica e moderna. Del resto, essendo di fatto venuta a mancare la forma cantata della liturgia ed essendo invalso l'uso della sola Messa letta, il canto sacro ha assunto l'aspetto di intermezzo d'intrattenimento, perdendo quindi la sua funzione strutturale, intimamente legata e coordinata con i gesti e le parole del celebrante.

Donella richiama giustamente le raccomandazioni, tuttora in vigore, sull'opportunità di eseguire anche nella nuova liturgia "i canti propri delle varie solennità" - che, si suppone, siano quelli gregoriani - così come "il canto del salmo[responsoriale] e delle varie acclamazio-

 

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ni". A questo, poi, aggiunge la necessità di inserire intermezzi organistici in molti altri momenti liturgici i quali, a ben guardare, non sono poi molto diversi da quelli del vecchio rito.

Eppure tutto questo normalmente non avviene. Potrebbe accadere, in realtà, se il clero avesse ancora la minima cognizione di cosa sia la musica sacra e, in generale, il buon gusto: l'inesistente educazione dei seminari e il cattivo esempio della gran parte dei vescovi hanno dato e continuano a dare in questo un pessimo contributo. Nella gran parte delle chiese parrocchiali, infatti, il canto gregoriano e la polifonia fanno parte in genere dei ricordi di qualche anziano; l'organo - quando si ha la fortuna di ascoltarlo - è quasi sempre mal suonato e sempre più spesso utilizzato per accompagnare insignificanti canzonette in lingua volgare le quali fino a pochi anni fa sembravano confinate al repertorio della messa 'dei ragazzi' e che ora, invece, costituiscono il bagaglio comune delle ormai sparute compagini canore ancora esistenti. Addirittura le cattedrali (fino a tempo fa roccheforti di buona musica) hanno perduto quasi ovunque il loro livello di eccellenza, guadagnando rapidamente, soprattutto nell'ultimo ventennio, posizioni spesso vergognose.

Purtroppo questi problemi sembrano interessare un numero di persone sempre minore, soprattutto tra i membri del clero e, obbiettivamente, una loro soluzione sembra per ora quanto meno utopica.

Secondo Donella, la ragione dell'abbandono del nuovo rito da parte di alcuni fedeli sarebbe "la non conoscenza della Messa di Paolo VI", poiché coloro che erano addetti a spiegarla - vescovi e sacerdoti - non l'avrebbero fatto nei modi opportuni. L'impressione maturata all'interno della nostra associazione, tuttavia, è abbastanza diversa: coloro che si affezionano alla Messa tradizionale sono infatti alla ricerca di un'esperienza liturgica forte, seria, edificante, che offra la certezza di forme immutabili e sempre alte; tutte cose che, nel nuovo rito, o sono totalmente assenti o presenti appena in parte.

Il ritorno al rito antico, dunque, non è e non vuole essere un "refugium desperantium" - come scrive Donella - ma rappresenta un autentico segno di speranza, il segno di una Chiesa eternamente viva, orgogliosa delle sue tradizioni e delle sue altissime forme rituali e musicali.

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* L'architetto m° Massimo Bisson è consigliere nazionale di Una Voce Italia.

 

da Una Voce Notiziario n° 36-38, 2009-2010, p. 12-14

 

 

 

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Inserito il 19 agosto 2010

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