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In morte del Professor
Don Ivo Cisar Spadon
1928-2005

di Giordano Brunettin

 

Don Ivo Cisar Spadon è stato un santo sacerdote.

Con questo giudizio si potrebbe anche concludere il suo profilo biografico, per lui che sempre sosteneva che la carriera di un sacerdote è finita con la S. Messa.

Tuttavia l'utilizzo di una formula tanto abusata è troppo stereotipata per avere il gusto della verità, né si farebbe buon servizio alla Chiesa e ai fedeli cattolici omettendo di darne spiegazione razionale e mostrando quindi un percorso di possibile santificazione.

È mia intenzione partire proprio da questo ultimo punto:

che la santificazione sia passata anche per l'umiliazione, la disistima e la mortificazione delle capacità e delle virtù personali è sempre avvenuto nelle vite di quei cristiani che hanno inteso seguire con coerenza e fino in fondo la via di Gesù Cristo, la via della Croce, ma in questi nostri tempi accade con una frequenza che deve indurci tutti a ponderata e grave riflessione.

Così è accaduto anche per don Cisar, le cui qualità e virtù personali sono state vissute nel nascondimento e, da ultimo, perfino nel fraintendimento da parte di superiori, confratelli, semplici fedeli, tanto da indurre a ritenere chi giudica ab extrinseco la sua esistenza che esse siano andate sprecate.

Infatti, dotato da Dio di qualità umane decisamente superiori alla media, don Cisar ne ebbe anche il dono preziosissimo della fede e il completamento con la vocazione sacerdotale fin dagli anni infantili, che vennero provvidenzialmente indirizzati al servizio della Teologia: eppure Gesù gli chiese nella vita il sacrificio dei riconoscimenti esteriori per quelle qualità e per quei doni. Non basta: Egli gli chiese anche il sacrificio di quelle consolazioni lecite per il suo stato sacerdotale e, a compimento di un percorso di purificazione terrena, la persecuzione e l'oltraggio.

Quest'ultima affermazione non paia esorbitante, perché è iscritta passo passo nella biografia di don Cisar, come cercheremo di mostrare, e soltanto l'ottundimento che conosce la nostra comoda, sicura e rinunciataria condizione di cattolici della domenica ha impedito di vedere e apprezzare. E quello che potrebbe apparire uno spreco, è invece un guadagno.

Nato a Dobruska, all'estremo nord della Repubblica Ceka, il 29 dicembre 1928, egli proveniva da famiglia cattolica, benestante e innovativa: il padre era un grosso commerciante di stoffe e tessuti, che apriva negozio con diversi dipendenti, in contatto con fornitori di tutta Europa, sempre al passo con i ritrovati della tecnica e della produzione.

In casa Cisar si respirava dunque un'atmosfera internazionale, ma si curava anche la cultura, specie musicale, come d'altronde avveniva nella Cecoslovacchia d'allora, prima dell'avvilimento prodotto da quarantacinque anni di regime comunista. La madre era molto devota e pia e seppe per tempo scegliere l'inclinazione religiosa del suo secondogenito ed la favorì con dolcezza e prudenza. Purtroppo la gravidanza della sorella di don Cisar non fu felice e la madre morì poco tempo dopo averla data alla luce, lasciando così il marito solo a mandare avanti la famiglia.

Date le evidenti doti d'intelligenza e di brillantezza, Ivo venne mandato a seguire gli studi classici: erano i tempi durissimi dell'occupazione tedesca della Cecoslovacchia, tempi di miseria e di prevaricazione, che lasciarono un segno profondo nell'animo nazionale e intenso il bisogno di riscatto e di rilancio dell'orgoglio patriottico.

Don Cisar ricordava ancora l'imposizione della studio del Mein Kampf e di testi scolastici in tedesco "aggiustati" dal regime nazionalsocialista. Come ricordava con un orgoglio mitigato dalla pietà cristiana l'attentato organizzato dai partigiani boemi che nel 1942 a Praga costò la vita al gerarca nazista Heyndrich, Reichsprotektor di Boemia e Moravia.

Intanto emergevano anche altre doti del giovane Ivo: una disposizione straordinaria per la musica, tanto da indurre i famigliari a farlo proseguire anche in questo settore di studi (pianoforte, composizione).

I primi risultati furono incoraggianti oltre ogni speranza: gli si apriva una possibile carriera concertistica e creativa.

Il dopoguerra non portò affatto a quella liberazione che tanto era stata auspicata e per la quale tanto era stato pregato: gli accordi di Yalta avevano comportato l'abbandono della Cecoslovacchia alla sfera di influenza sovietica. Il 24 febbraio 1948 il primo ministro comunista Gottwald compì di fatto un colpo di stato che gli diede pieni poteri e inaugurò la dittatura comunista sotto la tutela di Mosca. Nel frattempo don Ivo aveva maturato la vocazione sacerdotale e con fermezza aveva deciso di entrare nel seminario, puntando sul prestigioso istituto di Praga, dove insegnava l'autorevole professor Josef Beran, poi destinato alla pesante croce dell'arciepiscopato.

Il clima interno era diventato però tanto pesante e persecutorio, che il padre di Ivo ritenne più opportuno mettere al riparo il figlio: con un grosso sacrificio e con grande ansia, l'8 dicembre 1948 don Ivo riuscì a prendere l'ultimo aereo utile per Roma. Per inciso, nel giugno 1949 l'arcivescovo Beran, che aveva osato opporsi alle prevaricazioni e alle menzogne del brutale regime comunista, venne imprigionato e venne scarcerato soltanto nel 1963.

Preso alloggio al Collegio Nepomuceno in Roma, don Ivio poté così continuare gli studi del seminario, mentre la sua famiglia veniva perseguitata per il "tradimento" del figlio.

Nei confronti del seminarista venne emesso mandato di cattura, mai ritirato.

Completati i suoi studi, don Cisar fu ordinato sacerdote dal cardinale Traglia il 5 luglio 1953 nella chiesa dei Santi Apostoli. Cantò la prima messa nella cappella maggiore del Nepomuceno la domenica successiva.

In perfetta concomitanza suo padre veniva intanto arrestato dalle autorità comuniste del suo Paese.

Le doti del giovane sacerdote erano evidenti e gli vennero prospettate tre possibili "carriere", precedute da studi specifici: la diplomazia pontificia, la musica sacra e la teologia. Ragioni di salute costrinsero don Cisar a preferire la teologia.

Conseguì la laurea in sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense di Roma come allievo di Pietro Parente (poi cardinale), Pietro Palazzini (poi cardinale), Ermenegildo Florit (poi cardinale), Ugo Lattanzi, Giuseppe Graneris, Giuseppe Damizia, Salvatore Garofalo, Teofilo Garcia ab Orbiso, MIchele Maccarrone, Roberto Masi.

Il relatore della sua tesi fu l'allora mons. Pietro Palazzini e l'argomento era l'opera di A. Hesnard (Paris 1954) Morale sans péché. Un estratto  dell'elaborato di laurea compare nell'opera collettanea Il peccato. Egli stesso poi non intese seguire la strada della Musica Sacra: l'amore cristiano e sacerdotale a Dio lo spingeva all'approfondimento della conoscenza del Creatore e del Redentore, anche per meglio adempiere alla missione evangelica "euntes docete".

Per mantenersi agli studi don Cisar finì a ricoprire le funzioni di cappellano presso l'Arcipretale di Spilimbergo: è questo il primo fortissimo collegamento con la nostra regione. Nella cittadina friulana, dove ebbe modo di farsi notare per la devozione, la scienza e le qualità sacerdotali, fu preso quale figliuolo spirituale dalla signora Romana Spadon vedova Dalan. Donna di grande pietà e carità cristiana, mamma Romana aveva provato nella propria vita il morso della tragedia e del dolore: il marito, infatti, il dottor Giovanni Battista Dalan, era stato veterinario di Spilimbergo e venne trucidato dai partigiani sulle montagne spilimberghesi nel 1944.

Il riconoscimento delle doti sacerdotali e personali di don Cisar, nonché la pietà verso un esile e un perseguitato la mossero fino alla sua adozione, oltre a continuare a sorreggerlo sempre anche economicamente, ella che certo non nuotava nell'oro, nella sua difficile e dispendiosa attività di studio.

Il senso caritatevole del giovane cappellano e la sua sensibilità, dissimulata dall'educazione e dall'indole nazionale, traspaiono da un piccolo episodio di vita spilimberghese.

Morì una donna, vecchia, sola, povera e molto pia. Data la condizione, le spettava un frettoloso funerale senza musica. Ma all'organo andò don Cisar. Alla fine l'arciprete mons. Tesolin commentò "Un accompagnamento musicale così, neanche un funerale di prima classe lo ha mai avuto!".

Su sollecitazione dei suoi superiori, don Cisar intraprese anche lo studio del Diritto canonico, condotto presso la Pontificia Università Lateranense di Roma. Nel frattempo, infatti, era stato chiamato a insegnare Teologia dommatica e fondamentale nei seminari regionali di Catanzaro (1961-1965).

Nel 1962 egli si addottorò nella scienza giuridica della Chiesa con una tesi assai formale, ossia in materia procedurale sulla notificazione.

La sua attività di studio in teologia e di pubblicazione di molti lavori e articoli lo avevano messo in contatto, intanto, con diverse personalità della Chiesa conciliare, tutta fervorosa di un aggiornamento, mons. Loris Capovilla, il cardinale Fagiolo, per citarne alcuni fra i più noti. Con essi don Cisar ebbe modo di lavorare assai d'accosto, giungendo anche a redigerne interventi e relazioni per pubblici convegni e congressi e a consigliarne indirizzi pastorali e dottrinali.

Così gli giunse l'invito del card. Fagiolo di recarsi a tenere cattedra presso il suo seminario teatino: tra il 1965 e il 1973 egli insegno Teologia dommatica a Chieti, svolgendo nel frattempo intensa attività di relatore e predicatore nell'arcidiocesi. Ebbe modo anche di laurearsi in Filosofia presso la libera Univerrsità degli Studi "Gabriele d'Annunzio" (1973).

Tutto ciò delinea a sufficiente l'infaticabile studiosità di don Cisar, sempre attivo nella ricerca teologica, nell'attività pubblicistica, nella diffusione della fede e delle verità cattoliche, ma anche nel perfezionamento delle personali cognizioni e qualifiche.

Nel 1973 venne quindi chiamato a insegnare Teologia dommatica nel Seminario diocesano di Concordia-Pordenone, dove rimarrà fino al 1986. L'invito era giunto dallo stesso vescovo di Concordia-Pordenone, mons. Abramo Freschi, assai preoccupato delle devianze dottrinali che si stavano radicando nel suo seminario, con un indirizzo soliscritturistico (mons. Ornella) e moralmente progressistico (mons. Padovese). Il nominativo di don Cisar era stato formulato e caldeggiato dall'arciprete dio Spilimbergo, mons. Tesolin, che lo conosceva profondamente perché era stato suo cappellano.

La fase pordenonese della biografia di don Cisar fu tutt'altro che felice: essa coincise col tracollo della fase post-conciliare e quindi con l'inizio delle persecuzioni e delle calunnie che gli furono lanciate contro.

La situazione che egli trovò nel seminario diocesano era disastrosa, con una contestazione plateale e con una mancanza radicale di vera pietà sacerdotale.

Il primo attacco gli venne mosso proprio ad opera dei suoi colleghi insegnanti del seminario, che lo avevano veduto come un avversario temibile in quanto interprete dell'avversata "scuola teologica romana". Era difficile vincere le argomentazioni filosofiche di don Cisar.

Bisognava stroncarlo sul piano dell'umiliazione personale: da qui parte il teorema del prete conservatore, attardato, poco aperto all'aggiornamento e perciò poco intelligente, addirittura rigido, severo e poco caritatevole. Da qui la congiura del silenzio verso ogni suo intervento teologico, anche se in forma di lettera nel settimanale diocesano, e fin anco l'oltraggio personale.

Don Cisar sopportò tutto, anche perché il suo insegnamento a Pordenone gli aveva permesso di avvicinarsi all'amata mamma Romana, che, colpita dal morbo di Alzheimer, aveva sempre più bisogno di cure e di amorevole dedizione.

Nonostante la - debole - protezione del vescovo, don Cisar ricevette il "benservito" dal Seminario concordiese, e si ridusse a dover cercare un qualche inserimento alternativo nella diocesi per poter "campare". Nel frattempo ebbe a morirgli la madre adottiva e soltanto l'intervento provvidenziale trasse don Cisar, esule e solo, dall'invocazione a Dio di raggiungere finalmente i suoi cari.

Attraverso la misteriosa azione di padre Pio da Pietrelcina, don Cisar conobbe Gianna Biason, figlia spirituale del frate stimmatizzato, che aveva espresso il desiderio di dedicare la sua vita al servizio di un sacerdote. Un prezioso aiuto personale gli venne quindi concesso per opera di Dio.

Egli che aveva avuto il talento e il carisma dello studio e dell'insegnamento della Scienza Sacra, si dovette adattare a insegnare dapprima Diritto ecclesiastico presso l'Istituto Superiore di Scienze Religiose di Portogruaro (1986-1987) e poi filosofia e religione nei licei - tra l'altro anche all'Istituto Don Bosco di Pordenone. Sempre per obbedienza e per dure necessità di vita don Cisar si adattò pure a ricoprire l'ufficio di parroco ad Istrago: doveva semplicemente "tappare un buco" per tre mesi... e vi rimase per oltre cinque anni (1985-1991).

Tempi e officio richiedevano un clima ben differente di quello teologico di don Cisar, anzi richiedevano piuttosto senso di umano accomodamento, proprio quella condiscendenza al peccato che don Cisar vedeva come incompatibile con lo stato sacerdotale e cristiano. E ne venne ripagato a misura da alcuni parrocchiani, che ritenevano di essere autorizzati a vivere "tamquam Deus non esset", giustificando il peccato con l'ingiustizia sociale: emblematico l'atteggiamento di non trovare nulla di doloroso nel suo stato di esule... tanto "ancje nos sin emigrants"...

In seguito a una sua reazione all'ostinazione della Curia nel lasciarlo nella missione parrocchiale, dal 1991 diventò giudice del Tribunale Ecclesiastico Regionale del Triveneto, dopo avervi svolto l'officio di avvocato.

In tutta la sua vita è stata davvero intensa la sua attività pubblicistica, per esempio sul periodico Palestra del Clero, e di traduttore, con un'antologia di scritti di san Francesco di Sales tradotti in boemo e per la traduzione dal hochdeutsche di uno scritto del beato Marco d'Aviano.

Ma sembra proprio che essa venga ignorata e il suo autore sottovalutato. La spiegazione è immediata: don Cisar ha perso il treno del successo ecclesiastico, rappresentato dal progressismo e dal clericalismo, tanto da non rimediare neppure uno straccio di monsignorato diocesano.

Questa dirittura morale non fu soltanto il frutto della pratica della virtù, ma anche - forse aspetto ancora più irritante e temibile per i suoi avversari - della logica e razionale applicazione nella vita dei principi teologici appresi e insegnati.

Furono infatti la grande intelligenza e la coerenza con la propria vocazione sacerdotale e teologica a condurre don Cisar a non adattarsi a seguire le mode teologiche del momento, le facili e redditizie dottrine che nell'epoca del post-concilio hanno garantito a molti ecclesiastici l'ingannevole plauso del mondo, la conveniente pastorale degli slogan e del rispetto umano, in una parola il generale deragliamento da una Tradizione millenaria sotto la giustificazione dell'aggiornamento a ogni costo. Egli si assunse il carico della coerenza e della fedeltà alla Chiesa pur sapendo di contrapporsi a prestigiosi colleghi professori, non soltanto quindi di piccoli seminari di provincia, a autorevoli personalità ecclesiastiche, a opinionisti di grido, infine alla massa dei cattolici arresisi alla nuova legge del "così fan tutti" e resi ardimentosi soltanto per il loro numero nel pretendere d'imporla anche ai sacerdoti che difendono l'onore di Dio.

Don Cisar, dunque, seguendo una direttrice di coerente sviluppo di quanto aveva sempre insegnato e praticato, si apprestò negli ultimi suoi anni a tutelare la Verità che non conosce mode, ma che richiede soltanto modi nuovi e più efficaci per convertire le anime: egli sapeva bene quale sarebbe stato il prezzo da pagare per la mancata acquiescenza allo spirito dei tempi, ma forte della sua solida preparazione teologica, con il suo minuzioso argomentare, mediante l'efficacia della parola scritta e detta, don Cisar scese in trincea adattandosi ad una lunga guerra di posizione nel fango e nel silenzio.

Qui scattarono i fraintendimenti più grossolani, se non le malvagie denigrazioni: don Cisar venne accusato di conservatorismo - donde egli volle ironicamente schermirsi con il piccante scritto autobiografico e apologetico Dal curriculum di un "conservatore" (dicembre 1991) -, di arretratezza, di ostinazione, perfino di incapacità professorale, infine di lefebvrianismo.

Gli argomenti ad personam vennero agitati in tutte le sedi, specie quella curiale, che negli ultimi anni si dimostrò particolarmente dura nei suoi confronti.

Eppure sarebbe bastato conoscere più da vicino dan Cisar per apprezzarne la dignità sacerdotale e la volontà, fino in ultimo, di imitare Gesù Cristo, per essere perfetti come il Padre celeste. Una determinazione alla perfezione che si manifestava, al di là dell'umana fralezza, in tutte le espressioni di don Cisar.

Egli era tutto preso, infatti, dalla dignità sacerdotale, che prevale su qualsiasi dignità umana, su qualsiasi potestà e convenienza, poiché il sacerdote agisce in persona di Cristo e deve portarne la Parola e la Grazia sacramentale a tutti gli uomini, opportune et importune, senza impedimenti e timori, per realizzarne la salvezza. Da qui una linea di condotta e atteggiamenti che a volte gli hanno alienato - provvisoriamente, ma anche stabilmente - il rispetto e la considerazione di fedeli e "amici". Soltanto a fare qualche esempio, onde evitare i soliti equivoci, basti ricordare i puntuali richiami di don Cisar all'impudicizia dell'attuale abbigliamento femminile, soprattutto nella casa di Dio, i rimproveri per le bestemmie mossi anche in ambienti pubblici, l'intransigenza per il rispetto verso Gesù Eucaristico, donde il suo rifiuto a concedere la comunione colla mano e a introdurre altre trovate demagogiche della "liturgistica" corriva.

Don Cisar giunse - ma è corretto dire tornò - alla Messa "tridentina" per un intimo processo di riflessione e di ripensamento, che partiva da principi teologici e dalla constatazione del fallimento dell'ondata di "aggiornamenti" post-conciliari. Se l'occasione gli venne offerta dalla richiesta di un nuovo delegato vescovile per le celebrazioni presso la Santissima Trinità in Pordenone alla fine del 1999, tuttavia egli confessò che proprio in quei mesi aveva avvertito fortissimo il desiderio di poter celebrare quella Messa e la richiesta curiale gli sembrò essere un segno particolare, una risposta dall'Alto.

Don Cisar si spese - come suo solito - senza riserve non soltanto per le numerose celebrazioni cui veniva invitato, ma anche per sostenere teoreticamente la Messa "tradizionale", diffondendosi in molti scritti sulle ragioni della necessità di salvaguardare quel rito e di celebrarlo senza restrizioni. Egli assunse anche su questo punto della vita ecclesiale una posizione scomoda, ma fruttifera: rifiutando la contestazione più o meno radicale dei gruppi "scismatici", smontando teologicamente e canonisticamente le ragioni del partito dei conservatori del nuovo rito - sovente patroni di abusivismi liturgici più o meno scandalosi - e correttamente interpretando l'insegnamento del Santo Padre.

E sempre sospinto dal bisogno di mettere a frutto le doti donategli da Dio per la Sua maggiore gloria e per il bene della Chiesa, dal 2002 don Cisar si assunse l'onere di tornare a insegnare teologia dommatica e Diritto canonico presso l'Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote in Gricigliano.

Per lui fu una grande fatica, ma anche una consolazione, poiché poté trovare ancora dei giovani desiderosi di rispondere integralmente, senza compromessi, alla chiamata sacerdotale, soprattutto incentrando la propria vita sulla celebrazione della S. Messa, con una dignità anche formale, che è espressione coerente e razionale delle verità teologiche cattoliche.

Negli ultimi tempi don Cisar era preoccupato che la vecchiaia potesse condurlo ad una malattia che menomasse la dignità sacerdotale e insieme fosse di aggravio per gli altri. Anche in questo Dio volle essergli Padre: la morte lo colse rapidamente, senza dolore, poco prima di celebrare la S. Messa vespertina.

 

 

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Un prete che aspettava Summorum Pontificum

Pagina don Ivo Cisar

Pordenone, chiesa della Santissima

 

 

 

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Inserito il 15 settembre 2010

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