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L'ateismo

Nozione, divisione, possibilità

di padre Cornelio Fabro

 

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L'ateismo è la teoria che nega l'esistenza di un Dio personale. Il termine fu in voga nel Rinascimento per indicare l'atteggiamento di chi non ammette l'esistenza della divinità, ma la definizione è già in Clemente Alessandrino: "L'ateo è chi afferma che non esiste Dio" [1]. È ateismo pratico quando si vive senza riconoscere Dio, "come se" Dio non esistesse ovvero senza preoccuparsi della sua esistenza e organizzando la propria vita privata e pubblica prescindendo dall'esistenza di qualsiasi Principio assoluto che trascenda i valori dell'individuo e della specie umana. È ateismo teorico quando si porta direttamente o indirettamente il proprio giudizio sulla non-esistenza della divinità. Negano Dio "indirettamente" (ateismo negativo) coloro che lo ignorano completamente, che non sono in grado di darne un giudizio oppure affermano che il problema non li interessa (indifferentismo). Lo negano "direttamente" (ateismo positivo) anzitutto quanti s'applicano a demolire i fondamenti delle prove dell'esistenza di Dio, della necessità della religione e del culto e di quanto necessariamente vi si connette (Provvidenza, immortalità dell'anima, legge naturale, sanzione morale...). È detto ateismo scet-

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tico se si insiste sulla invincibilità del dubbio e diventa ateismo agnostico quando l'indimostrabilità è detta o riconosciuta assoluta o da parte dell'oggetto o del soggetto. È ateismo teorico positivo quando ci si proclama certi e persuasi della non-esistenza di Dio, quando si demoliscono e si scalzano come erronee e infondate le prove addotte per la sua esistenza e si pretende che una vera dimostrazione della medesima finora non sia stata data né mai si possa dare.

Ma nell'ateismo rientrano, dal punto di vista teologico e metafisico, anche tutte quelle filosofie e religioni, che si fanno di Dio un concetto contrastante l'esigenza della sua Natura: il Flint [2] ha preferito parlare qui di "antiteismo" invece di ateismo. Ma queste concezioni, con l'illusione di una accettazione della divinità, allontanano in un certo senso ancor più dell'ateismo dalla conoscenza del vero Dio. Questo schema tradizionale di classificazione dell'ateismo non può essere tuttavia applicato in concreto, specialmente nella filosofia e cultura moderna, se non con opportune cautele, avendo riguardo soprattutto se c'è un'affermazione di Assoluto, quale esso sia e come la mente umana lo possa raggiungere.

La possibilità di un ateismo pratico, almeno temporaneo, pare fuori dubbio: la pressione dei problemi concreti della vita, il bollore delle passioni, un ambiente familiare indifferente e un'educazione laica possono per un certo periodo della vita distogliere l'interesse dell'uomo dal problema di Dio. Non però per sempre: almeno per quanti vivono a contatto della società dove la posizione del problema, per le stesse esigenze di competizione e di lotta religiosa e politica, pare inevitabile. Del resto, quel che la storia delle religioni ci attesta per i popoli, si può dire anche per gli individui: anzitutto i grandi fenomeni della natura con lo spettacolo di

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stupore della loro magnificenza, e di terrore con la minaccia travolgente della distruzione; poi i fatti decisivi dell'umana esistenza come la nascita e la morte ed il problema più angosciante della vita umana, quello cioè della sofferenza del giusto su questa terra e della frequente fortuna del malvagio. Tutto questo, presto o tardi, deve porre alla coscienza umana il problema di una causa e di una giustificazione, ciò che è il problema di Dio.

L'ateismo teoretico di conseguenza non può essere una situazione originaria, ma va spiegato come un fenomeno riflesso, come la "conclusione" di un determinato processo razionale che fa capo a certe premesse: appartiene quindi alla coscienza riflessa, propria della filosofia o della scienza camuffata da filosofia. È un fatto che in ogni civiltà matura si sono avuti fautori decisi (che si dicevano e che si suppongono quindi "convinti") dell'ateismo teorico sia negativo come positivo; risulta anche che il numero degli atei risulta aumentare in quella che può dirsi la "fase di saturazione" di una certa forma di civiltà, come la filosofia stoica ed epicurea nella civiltà greco-romana, l'illuminismo e l'idealismo nella civiltà moderna, la sopraffazione della tecnica e dell'economia nella vita contemporanea. La possibilità perciò dell'ateismo teorico diventa più o meno reale e plausibile a seconda del verificarsi o meno di certe condizioni ambientali e culturali che il teologo deve considerare volta per volta: esse spesso, nel tessuto concreto dell'esistenza, non sembrano superabili che per un intervento speciale della Grazia divina, la quale,secondo la dottrina cattolica, non può mancare a chi sinceramente cerca la verità.

Le complicazioni spirituali a cui oggi può portare la cultura moderna sono tali che gli autori cattolici non sono ancora riusciti a formulare un giudizio sull'ateismo di pieno accordo: [3] chi nega la possibilità stessa dell'atei-

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smo teoretico (Blondel, de Lubac) che poi è un fatto; chi invece ammette che l'ateismo possa essere invincibile in casi singoli (Billot) e c'è perfino chi dice che si possa perdere la fede senza colpa teologica (K. Adam). Il card. Billot distingue per gli atei adulti, gli "adulti aetatis" e gli "adulti rationis": quelli cioè a cui manca il minimo lume richiesto per formarsi un concetto del vero Dio e quelli che nel loro ambiente hanno a disposizione gli argomenti e gli elementi per un giudizio definitivo. Solo l'ateismo dei secondi è cosciente e colpevole, non quello dei primi nel quale il Billot fa rientrare le civiltà e le religioni idolatriche antiche e moderne e le concezioni laiche e atee in certi ambienti della vita contemporanea.

Malgrado tutte queste cautele che impone oggi il problema dell'ateismo, si deve comunque riconoscere che esso ha rappresentato nella storia dell'umanità, e lo rappresenta ancor oggi, più un atteggiamento individuale che una condotta sociale: un atteggiamento che può significare anche protesta o liberazione del singolo. La pretesa dell'etnologia materialista ed evoluzionista di mettere all'inizio della storia un uomo senza religione o politeista o feticista [4] privo di ogni vera nozione e culto della divinità, è stata smentita dai fatti; anzi, com'è noto, oggi la situazione si trova sostanzialmente capovolta, nel senso che le forme più primitive della religione sono risultate strettamente monoteiste, così che il politeismo è un fenomeno di degenerazione del monoteismo originario e le posizioni singole di ateismo non appaiono geneticamente che come le forme di reazione alle assurdità e sconvenienze delle concezioni e delle pratiche politeistiche. In questo senso poteva un dossografo antico affermare: "tutti gli uomini, senza distinzione di civiltà e lingua, onorano e temono gli dei; non

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c'è invero nessun popolo che sia ateo" [5]. E già prima Aristotele: "Tutti gli uomini hanno la convinzione ch'esistono gli dei" [6]. Affermazioni riprese ai nostri giorni, sul fondamento delle induzioni dell'etnologia moderna, da G. van der Leeuw: "Non esistono popoli senza religione. All'inizio della storia non c'è alcuna forma di ateismo. La religione c'è sempre e dappertutto" [7]: perché, secondo il medesimo autore, l'ateismo rappresenta nello sviluppo della coscienza il "momento negativo" che può sorgere e vivere soltanto in quanto suppone il precedente momento dell'affermazione cioè della religione come culto della divinità padrona dell'uomo e del suo destino [8]. In questo senso van der Leeuw chiama l'ateismo "la religione della fuga" davanti a Dio, o, con terminologia kierkegaardiana, dell' "angoscia di Dio", quando si rifiuta la fede per cadere nel demoniaco [9].

La ragione intima dell'ateismo, come atteggiamento spirituale-individuale, è nella stessa "libertà umana": Le difficoltà da una parte di raggiungere una completa chiarezza sui problemi dell'aldilà, del male e della Provvidenza e quindi sull'esistenza ultima del mondo e della coscienza, come sulla capacità di trascendenza della conoscenza; e d'altra parte le contraddizioni delle religioni fra loro, le sconvenienze di molte credenze e pratiche religiose, ed insieme l'esigenza che avanza ogni religione d'abbracciare ad influire su tutta la vita dell'uomo, possono di fatto allontanare l'uomo dalla religione e fargli respingere con essa anche il problema di Dio. D'al-

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tronde è appunto una tale situazione (cioè la gensi dell'ateismo per "scandalo") che deve operare e spingere il singolo alla ricerca colla scelta, fra le varie contrastanti religioni, dell'unica che sia la vera perché non dà scandalo. Se non che nelle condizioni dell'umana civiltà la religione vera, e quindi l'unica concezione che sia degna di Dio e dell'uomo, pare sia assicurata soltanto dalla Rivelazione, che per natura sua trascende l'evidenza razionale ed esige la fede. Per questo la vittoria definitiva sulle istanze del dubbio che portano all'ateismo, fa capo alla Grazia e alla libertà. Risulta perciò almeno semplicistica l'interpretazione che ha data dall'ateismo il teologo protestante K. Barth secondo il quale l'ateismo è un fenomeno di reazione alla mistica: contro il mistico che pretende di avere il rapporto diretto con Dio, l'ineffabile e l'inoggettivabile, l'ateo proclama il ritorno dell'uomo a se stesso, al mondo delle creature e della storia. L'ateismo sarebbe la mistica negativa o "del nulla", sorta dalla opposizione alla mistica positiva "del tutto" [10]. Il Barth però non precisa anzitutto il concetto di "mistica", e poi deve spiegare perché l'ateismo faccia maggior presa nei paesi a prevalenza protestante: è vero che la "mistica" è agli antipodi dell'ateismo ma in un senso opposto a quello inteso da Barth (teolodi "stretta osservanza" e d'ispirazione antipietista) in quanto cioè l'unione mistica rappresenta nella vita cristiana la forma più intima e alta (e sempre "gratuita") dell'unione dell'anima con Dio.

 

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[1] Strom., VII, 1, 4, 3.

[2] R. FLINT, Antitheistic Theories, Edimburgo e Londra 1889, pp. 2, 441.

[3] Cfr. P. DESCOQS, Schema Theodicaeae, I, Parigi 1941, p. 139 ss.

[4] D. F. STRAUSS, Der alte und der neue Glaube, cap. II, § 35.

[5] ARTEMIDORO, Oneirokr., 9.

[6] De coelo et mundo, I, 3, 270 b, 5; ed. W. K. C. Gurthrie, Londra 1945.

[7] Phaenomenologie der Religion, Lipsia 1935, p. 570.

[8] Cfr. L'Homme primitif et la religion, Parigi 1940, p. 194 s.

[9] Cfr. S. KIERKEGAARD, Il concetto dell'angoscia, a cura di C. Fabro, Firenze 1953, cap. 4 § 2.

[10] Kirchliche Dogmatik, I, II, 3ª ed., Zurigo 1945, p. 344 ss.

 

da Cornelio Fabio, Dio. Introduzione al problema teologico, Roma, Editrice Studium, 1953 p. 39-44

 

 

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Inserito il 18 settembre 2011

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