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Ildefonso Card. Schuster, Liber Sacramentorum > III. La Sacra Liturgia dalla Settuagesima a Pasqua > Martedì Santo

 

 

Missale Romanum

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MARTEDÌ  SANTO

Colletta a Santa Maria in Portico.

Stazione a Santa Prisca.

 

L'attuale Santa Maria in Portico sorge a un centinaio di metri circa dall'omonima diaconia medievale, eretta già nel portico del palazzo di Galla, la figlia del console Simmaco; oggi l'ospizio e la chiesa di Santa Galla, indicano appunto il luogo esatto dove sino al 1618 sorgeva la primitiva diaconia "in porticu Gallae". Questa nobile matrona, infatti, prima di racchiudersi a menar vita monastica presso San Pietro, nel monastero ancor oggi superstite di Santo Stefano katà Galla patricia, volle convertire in ospizio e xenodochium pei poveri la sua stessa casa, e lo fece dedicandola alla gran Madre di Dio, di cui venerasi in quel luogo ancor oggi un'immagine del V secolo, eseguita a smalto su d'una lamina d'oro.

Gregorio VII, che nell'avito castello dei Pierleoni ai piedi della rupe Tarpea poteva considerarsi siccome nato e cresciuto all'ombra del titulus Gallae, la restaurò dalle fondamenta e ne riconsacrò l'altare maggiore. Ma tutti questi argomenti di veneranda antichità nel secolo XVII non trovarono affatto grazia innanzi alle smanie innovatrici di quell'epoca avida di classicizzare tutto; sicché anche la vetusta immagine di Santa Maria in Portico dové emigrare e cercarsi lì vicino una nuova sede.

Fatta tuttavia astrazione dalla ragione storica dell'antico tempio, non si potrebbe assolutamente dire che il cambio sia riuscito a danno della Madonna del Portico di Galla, giacché la nuova basilica in Campitelli è veramente ampia e bella, degna della celebrità delle tradizioni della diaconia Galliana.

La chiesa inoltre non si potrebbe interamente dire nuova; giacché essa sorge sull'area d'una antica e fatiscente chiesuola intitolata nel medio evo a Santa Maria in Campitelli, e che nel 1217 aveva avuto l'onore di ricevere la consacrazione di mano dello stesso pontefice Onorio III.

Quanto alla basilica stazionale di Santa Prisca sull'Aventino, gli scavi praticati in quel luogo e gli studi compiuti dal De Rossi non hanno fatto altro che accreditare sempre più la tradizione che poneva in relazione la domestica Ecclesia Aquilae et Priscillae cogli apostoli Pietro e Paolo, che vi avrebbero accettato l'ospitalità. Nel 1776 in-

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fatti, presso la chiesa fu scoperta una casa romana con dipinti ed altri monumenti cristiani, e tra le rovine si rinvenne altresì un diploma in bronzo offerto nel 226 da un municipio di Spagna a Caio Mario Cornelio Pudenziano, personaggio senatorio e che quella città eleggeva a suo patrono. Ora, le relazioni tra i fondatori della necropoli Priscilliana sulla Salaria e i Pudenti del Vicus Patricius, sono ben note, perché l'accertamento d'una abitazione dei Pudenti sul Celio sul luogo del titolo d'Aquila e Priscilla, non debba spargere luce molto favorevole su quest'antica tradizione ecclesiastica.

A tempo di Pio VI si scoprì inoltre presso la basilica di Santa Prisca sul Celio un vetusto oratorio con pitture del IV secolo rappresentanti gli Apostoli. Tornarono pure alla luce un vaso vitreo, sulla cui circonferenza erano nuovamente rappresentati ad incavo i medesimi Apostoli, coi nomi incisi sul loro capo, siccome pure vari frammenti di mosaici rappresentanti pesci d'ogni genere che guizzano nelle onde, e che simboleggiano le anime rigenerate alla grazia per mezzo del Battesimo.

Insomma tutto un complesso d'argomenti viene a suffragare la tradizione romana che nel titolo Aventinese d'Aquila e Priscilla riconosce uno dei più antichi santuari dell'Urbe, santificato dalla dimora e dall'apostolato che vi esercitarono i santi Pietro e Paolo. Contro questa tradizione confermata dai documenti, non trovo alcuna soda ragione addotta in contrario.

Il medio evo espresse assai graziosamente i fasti sacri del titolo d'Aquila e Prisca:

HAEC · DOMVS · EST · AQVILAE · SEV · PRISCAE · VIRGINIS · ALMAE
QVOS · LVPE · PAVLE · TVO · ORE · VEHIS · DOMINO
HIC · PETRE · DIVINI · TRIBVEBAS · FERCVLA · VERBI
SAEPIVS · HOCCE · LOCO · SACRIFICANS · DOMINO

È da notarsi tuttavia, che la Prisca vergine e martire di cui si venera il corpo sotto l'altare maggiore del tempio, è diversa dalla Prisca o Priscilla moglie di Aquila, e discepola dell'apostolo Paolo.

Nel medio evo presso questo titolo sorse una celebre abbazia benedettina, che nel secolo XI era dipendente da quella di San Paolo sulla via Ostiense.

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L'antifona d'introito eccezionalmente è tolta dall'Apostolo (Galat. c. VI, 14). Il patibolo della Croce lungi dall'essere occasione di disonore, per il cristiano è un titolo di gloria, giacché è da lì che per mezzo di Gesù Cristo scaturisce la salute, la vita e la risurrezione. Segue il salmo 66: "Il Signore abbia di noi pietà e ci benedica i faccia risplen-

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dere su di noi il suo volto e ci usi misericordia". È questa la più bella preghiera che può elevarsi colla Chiesa al Divin Crocifisso. Egli volle bensì morire tra le tenebre della natura inorridita, divenuto egli stesso oggetto di maledizione da parte dell'ineffabile santità di Dio; ma al tempo medesimo ci riguarda amorosamente coi suoi occhi moribondi; e quelle pupille sono scintille e raggi di viva e sfolgorante luce che rischiarano tutta la terra. La maledizione di cui Egli per ubbidienza al Padre si carica sul Calvario, merita in nostro favore l'abbondanza delle divine benedizioni; sicché veramente Gesù Crocifisso è il lume del mondo, è il pegno d'ogni benedizione. Che Gesù pertanto faccia risplendere continuamente il suo volto agonizzante sulle anime nostre, affinché Egli si degni di rammentare quanto ha sofferto per noi e ci usi misericordia; noi poi, vedendo il volto di Gesù morente, concepiamo un grande orrore per il peccato ed un tenero amore pel nostro Crocifisso, dicendo con Paolo: Dilexit me et tradidit semetipsum pro me.

Nella colletta imploriamo dal Signore la grazia di prepararci convenientemente a celebrare i misteri della passione del Redentore, onde ritrarne quel frutto che si propone la Chiesa nella sacra liturgia.

Non trattasi infatti di una semplice commemorazione cronologica d'una data storica, no. Le opere di Gesù, le sue parole contenute nel santo Vangelo hanno sempre la loro efficacia ogni volta che devotamente vengono celebrate; onde quella medesima virtù che avevano allora quando per la prima volta furono eseguite o pronunziate davanti ai Giudei, posseggono oggi quando innanzi al popolo Cristiano sono riferite dalla santa Chiesa. Con quanta venerazione pertanto conviene ascoltare, specialmente durante la santa Messa, il sacro Vangelo! Con quanta purezza di cuore e di labbra è necessario che il sacerdote lo annunzi!

La lezione è tratta da Geremia (XI, 18-20) il quale, perseguitato dal corrotto sacerdozio del suo tempo, è uno dei tipi profetici più somiglianti a Gesù Cristo. Egli, nel passo che oggi ci propone la liturgia, appella al giudizio di Dio contro l'iniqua trama d'affiggere al patibolo il suo pane - ed ecco, come osservano i Padri, una profetica espressione che prelude al prodigio eucaristico, in cui sotto le specie del pane è il corpo del Signore.

Il graduale deriva dal salmo 34, in cui il Cristo spiega tutta l'ingratitudine dei suoi avversari. Egli li amava tanto, che quando essi giacevano malati - le malattie dell'anima sono i peccati e la febbre delle passioni - Egli si vestiva di sacco, cioè ricopriva la

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gloria della sua divinità coll'umiltà dell'umanità sua, ed affliggeva il suo spirito col digiuno. Nondimeno i nemici gli resero odio per amore, e perciò Gesù si rivolge al Padre e dice: "Giudica, o Iahvè, i miei avversari, aggredisci i miei assalitori; prendi l'egida e lo scudo e vieni in mio aiuto".

È da osservare, che quando nella Sacra Scrittura s'invoca la divina vendetta sugli empi, si deve intendere, o del giudizio estremo di Dio in seguito all'impenitenza finale del peccatore, oppure, se la frase va riferita alla presente vita, essa ha per oggetto i mali fisici e temporali che Dio il più delle volte riversa sui cattivi anche in questo mondo, sia per farli ritrarre dal mal fare e convertirli, sia ancora per sottrarre loro l'occasione di commettere nuovi peccati e rendere più esiziale l'eterna dannazione.

La lezione evangelica originariamente era quella Giovannea della lavanda dei piedi (XIII, 1-15), riservata poi al giovedì santo. Come alle terme, colui che esce dal bagno - Gesù amava servirsi d'immagini tratte dalla vita quotidiana del suo tempo affine di farsi meglio comprendere dai semplici - non ha bisogno che di risciacquarsi i piedi, così chi vuol degnamente celebrare la Pasqua eterna con Gesù, chi vuole essere a parte con lui, bisogna che nel Sangue dell'Agnello, negli ardori del suo amore, si purifichi prima anche delle più leggere imperfezioni.

Più tardi venne introdotta nell'odierna liturgia stazionale la lettura della Passione del Signore secondo san Marco (XIV-XV). Come osservano gli esegeti, quel giovane di cui qui si narra, il quale viene destato di soprassalto al rumore e alla notizia della cattura di Gesù, probabilmente era l'autore stesso del Vangelo, Marco, il quale, senza nominarsi direttamente, pone tuttavia come la propria sigla d'autore al suo scritto evangelico. Tutti gli elementi s'accordano in favore di Marco e rendono il bozzetto assai naturale. Marco infatti abitava con la madre in Gerusalemme, forse un po' fuori dell'abitato, tanto che i primi fedeli fecero della sua casa il luogo delle riunioni. Quando Gesù passò innanzi all'abitazione, il giovane s'era già coricato, e, giusta l'uso palestinese, deposte le vesti giornaliere, s'era ravvolto nell'ampio lenzuolo, che nel caso, trattandosi di persona agiata, viene indicato nel testo siccome di tela più fine. Al rumore della sbirraglia, il dormiente si desta ed appreso che passava Gesù catturato, così come stava si slancia fuori della casa ed incomincia a compromettersi coi soldati, esprimendo forse a loro riguardo qualche minaccia. Qualcuno degli sbirri che nel Getsemani aveva avuto la prova che i discepoli del Nazareno sapevano ancor

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maneggiare la spada, fa per impadronirsi dell'audace, ma il giovane lesto gli lascia in mano il lenzuolo e sguiscia via.

Chi vuol scampare dalle violenze del demonio, come osserva san Gregorio, bisogna che prima proceda ad un perfetto denudamento interiore come fanno gli atleti nel circo; è necessario che il diavolo non abbia dove afferrarci, e quindi bisogna di buon animo rilasciargli le cose materiali, pur di sottrarre lo spirito dai suoi artigli.

Il verso per l'offerta deriva dal salmo 139: "Traimi di mano al peccatore, o Signore, e mi libera dagli empi". Iddio ha accolta questa preghiera di Gesù moribondo, e nel mattino di Pasqua gli ha resa la vita, non più passibile e nella debolezza della carne, ma gloriosa ed  immortale. "Cristo risorto da morte, esclama l'Apostolo, non può più morire, né la morte vale più ad esercitar dominio su di Lui". Ecco la vittoria del Crocifisso, ecco l'aiuto paterno invocato.

Nella preghiera di preparazione all'anafora, noi supplichiamo Dio perché il sacrificio ordinato a santificare i solenni digiuni pasquali, riesca altresì efficace a rinnovare la nostra coscienza, strappandola cioè al male ed indirizzandola al bene.

A differenza degli Orientali, i quali nei giorni sacri all'astinenza omettono l'offerta dell'Eucaristico Sacrificio, Roma sin da antico non saprebbe celebrare alcun digiuno, se non consacrasse altresì l'incruento Sacrificio della Messa. Quindi è che nel Messale a ciascun dì d'astinenza, in quaresima, nei Quattro Tempi, nelle vigilie ecc., corrisponde regolarmente una messa, la quale, nel concetto liturgico degli antichi, consacrava la penitenza e segnava il termine del digiuno. Si fa eccezione pel sabato santo e per le grandi vigilie domenicali, che importavano il sabato aliturgico, cioè senza messa; ma la cagione si era che in tali casi il digiuno del venerdì si prolungava senza interruzione sino alla messa della mattina della domenica.

L'antifona per la Comunione è tratta dal salmo 68, in cui si descrivono i canti dei crapuloni, ebbri di vino, i quali pronunciano sentenza di morte contro il Giusto. Questi intanto prega, e coi voti affretta presso il Padre l'ora fortunata della misericordia.

Tutte le cose hanno il loro tempo, né noi possiamo invertirlo. V'è tempo di prosperità e tempo di miseria, tempo di gloria e tempo d'abiezione. Dio è quegli che nella sua Provvidenza alterna ed avvicenda così le ore. Bisogna quindi conformarci ai divini voleri, e nelle tribolazioni fa d'uopo d'attendere umilmente l'ora in cui piacerà a Lui di liberarcene. A tale scopo, è nostro dovere di pregare perché ci liberi dal male e non c'induca in tentazione; ma senza an-

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sietà, senza perdere la nostra pace interiore. Qui crediderit, non festinet, dice Isaia, mentre la fede ci rende certi che l'ora di Dio tarda, ma giunge. Aspettiamo dunque tranquillamente quest'ora, questo tempus beneplaciti, come oggi lo chiama il Salmista, e frattanto la speranza in Dio ci sostenga, sicuri che tutto al mondo potrà mancare, Dio però non verrà mai meno a chiunque si fida di Lui.

La colletta eucaristica è quella stessa del sabato dei Quattro Tempi di quaresima, quando pei meriti del divin Sacrificio si domanda che ci vengano estirpate dal cuore le malvagie passioni, e che si compiano i giusti voti del cuore. Questi voti tuttavia; allora sono giusti, quando saranno conformi alla regola del giusto, che è la santa volontà di Dio.

Perciò quando noi nella preghiera, invece di lasciarci guidare dallo Spirito Santo che è in noi e che in noi prega gemitibus inenarrabilibus, come s'esprime l'Apostolo, ci lasciamo sorprendere dallo spirito umano il quale c'istiga a dimandare ciò che nell'ordine della Provvidenza non conviene a nostro riguardo, Dio che è buono ci esaudisce non secondo ciò che desidera il nostro umano spirito, ma giusta quanto Egli vede che ci è conveniente. La preghiera perciò del credente non è mai sterile ed inefficace, ma sempre riporta qualche frutto.

Nella colletta di benedizione al popolo prima di congedarlo - e così si spiegano le frasi degli antichi; benedictione missae sint, fiant missae catechumenis ecc. - supplichiamo Dio che la sua misericordia ci purifichi da ogni inganno della vecchia corrotta natura, perché il mistero pasquale interamente ci rinnovi. Infatti, colla morte di Gesù tutti noi moriamo alla Legge, al peccato, alla carne, e per mezzo della sua risurrezione siamo chiamati a vita nuova secondo il prototipo che è il Cristo. Di Lui scrive l'Apostolo; quod mortuus est peccato, mortuus est semel, quod autem vivit, vivit Deo. Vivere a Dio, ecco il sublime programma di tutti i Figli di risurrezione, come li chiama il Vangelo.

Che il Signore faccia risplendere su di noi il suo volto e ci usi misericordia! Ecco il bel salmo messianico che la Chiesa in questi giorni applica ai trionfi del Crocifisso. Infatti, è dall'alto del patibolo infame che Gesù, sollevato giusta la sua parola da terra, attrae tutte le anime a sé. È dalla Croce che Egli volge le sue pupille moribonde all'umanità che lungo i secoli gli sfila dinanzi - Egli che, secondo la frase Giovannea, nei decreti divini vien considerato siccome immolato sin dal principio del mondo - e che dona a tutti i credenti la sua benedizione.

 

da A. I. SCHUSTER, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano - III. Il Testamento Nuovo nel Sangue del Redentore (La Sacra Liturgia dalla Settuagesima a Pasqua), Torino-Roma, Marietti, 1933, pp. 195-200.

 

 

 

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