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Ildefonso Card. Schuster, Liber Sacramentorum > III. La Sacra Liturgia dalla Settuagesima a Pasqua > Mercoledì Santo

 

 

Missale Romanum

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MERCOLEDÌ  SANTO

Sinassi generale mattutina in Laterano.

Colletta a San Pietro in Vincoli.

Stazione a Santa Maria Maggiore.

 

Al tempo di san Leone Magno, quando le ferie quaresimali non avevano ancora tutte la propria liturgia eucaristica, questo mercoledì della Settimana Santa era però sicuramente santificato dalla messa stazionale, giacché abbiamo tutta una serie d'Omilie del grande Pontefice recitate in feria IV hebdomadae maioris, in cui l'autore riprende a svolgere innanzi al popolo romano l'ampio tema della passione del Signore, rimasto interrotto la domenica precedente. È segno dunque che dalla domenica alla feria IV non v'era stata alcun'altra sinassi intermedia; anzi, da principio, la stessa stazione del mercoledì santo doveva probabilmente essere aliturgica, cioè senza consacrazione, come il venerdì santo, giacché per lunghi secoli gli Ordini Romani hanno serbato traccia di questa primitiva disciplina. Prescrivono infatti che la feria IV della settimana maggiore nell'adunanza generale del clero cittadino e suburbano che si faceva in Laterano la mattina e quindi precedentemente alla sinassi sull'Esquilino non si recitasse altro che la solenne preghiera litanica, oggi in uso esclusivamente il venerdì santo. La consacrazione eucaristica era riservata alla stazione vespertina nella basilica Liberiana.

Nelle maggiori settimane del ciclo liturgico a Roma, era di regola che l'adunanza del mercoledì si celebrasse a Santa Maria Maggiore, quasi ad assicurarsi la protezione della Vergine prima d'intraprendere alcuna cosa di particolare importanza. Nel nostro caso speciale, trattasi di porre sotto il patrocinio di Maria i nuovi aspiranti al battesimo pasquale, e chi meglio di lei potrebbe proteggerli, ella, la buona Madre, che nel meriggio della Parasceve sarà per essere costituita madre delle misericordie, e l'avvocata del genere umano?

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L'antifona d'introito è tolta da san Paolo: "Così in cielo che in terra e nell'inferno stesso al nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio, giacché il Signore essendosi reso ubbidiente sino alla morte, e alla morte di croce, fu sollevato alla gloria del Padre".

Alla vigilia della passione la Chiesa vuol confermarci nella fede

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con questo splendido cantico trionfale, affinché dimani, vedendo Gesù confitto sul patibolo tra due ladri, noi ci ricordiamo che appunto in grazia dell'ubbidienza e dell'umiliazione Egli ha meritato il trionfo della resurrezione e la distruzione del regno di Satana.

Nella colletta si supplica il Signore che pei meriti della passione del suo benedetto Figliuolo, ci scampi dai flagelli, che abbiamo purtroppo meritati coi nostri peccati.

Non si può fare a Dio cosa più gradita che presentargli i meriti della passione di Gesù, giacché è appunto nel suo Unigenito Figliuolo che Egli trova tutte le sue compiacenze, e per riguardo suo non sa negare nulla.

Quest'oggi, come anticamente nei giorni più solenni, i quali a preferenza degli altri hanno conservato tracce della primitiva disciplina liturgica, abbiamo una doppia lezione profetica. Nel brano che segue (Is. LXII, 11, LXIII, 1-7) il figlio di Amos descrive Gesù che colle vesti spruzzate di sangue sta prendendo una tremenda rivincita sui nemici dell'anima nostra. Infatti la sua passione cela un mistero d'ineffabile umiltà e di terribile possanza, mentre le umiliazioni e i tormenti che Egli accettò per nostro amore, sono appunto le armi colle quali schiacciò l'umana superbia, la sensualità, e ridusse al niente la potenza di Satana.

Segue il responsorio derivato dal salmo 68, nel quale si descrivono le ambascie del Cuore di Gesù nella sua passione: "Non rivolgere il volto dal tuo servo". - Il Salvatore s'era caricato del peccato degli uomini, e s'era quindi assoggettato alla pena dell'abbandono da parte di Dio, il quale giustamente rivolge il suo volto dal reo peccatore. È quell'aspro martirio che corrisponde in qualche modo alla pena del danno che tormenta i dannati nell'inferno. - "Tosto mi ascolta, perché sono tribolato. Mi salva, o Iahvé, perché i flutti son saliti sino all'anima mia" - il peccato cioè ha amareggiato l'intimo dell'anima mia, cosi che il mio cuore è in preda alla più terribile desolazione, senza che dall'unione ipostatica colla persona del Verbo ne derivi alla mia parte inferiore il minimo conforto. - "Affondai in una voragine limacciosa - l'iniquità di tutto il mondo - e non  trovai alcun sostegno". - Quest'abbandono di cui si dolse Gesù in croce non va inteso in senso assoluto, giacché anche durante la sua straziante agonia sul patibolo infame l'anima benedetta del Redentore era beata nella chiara visione di Dio; ma si deve intendere in senso relativo, in quanto che Dio per abbandonare il suo Unigenito Figliuolo in preda ai patimenti, dispose che questa beatitudine dell'anima non ridondasse sul corpo.

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Segue la colletta, che al ricordo della passione del Signore associa bellamente quello ancora della resurrezione. Dobbiamo infatti credere che Gesù Cristo in un'unica persona unisse la natura divina e l'umana, senza alcuna confusione, ma con perfetta distinzione di proprietà. Egli quindi come uomo patisce e muore; però la sua umanità perché unita ipostaticamente alla Divinità, non può marcire nel sepolcro, ma deve ricevere la più splendida glorificazione risorgendo da morte, primogenito fra tutti i morti, anzi cagione e prototipo della nostra universale resurrezione: "O Dio, che a sottrarci dal potere del nemico volesti che il Figlio tuo ascendesse al patibolo della croce, concedi ai tuoi servi che possano conseguire i frutti della sua resurrezione".

Questi frutti di resurrezione sono la resurrezione spirituale delle anime per mezzo della grazia, e poi finalmente la loro finale salvezza nella gloria. Senza questi frutti, la passione di Gesù Cristo rimarrebbe sterile, come dice l'Apostolo: Ergo gratis Christus mortuus est?; ben si comprende adunque come la resurrezione integra il concetto della passione, ed è per questo che la liturgia non scompagna mai questi due sacri ricordi, che s'illustrano e si completano reciprocamente.

La lezione seguente (Is. LIII, 1-12) venne chiamata assai bellamente il Protoevangelo, perché in essa il Veggente di Giuda molti secoli innanzi contempla le umiliazioni e gli spasimi sostenuti da Gesù nella passione, di cui descrive i più minuti particolari. Il titolo caratteristico che qui si attribuisce al Messia, è di Servo di Iahvé, poiché, siccome pel peccato l'uomo aveva tentato di sottrarsi al dominio di Dio, cosi il Redentore ad espiare questa ribellione dové consacrarsi interamente a compiere la volontà del Padre. Gesù è di Dio, scrive san Paolo: Christus autem Dei. Egli è di Dio e come figlio e come servo, anzi, come vittima. I diritti divini su Gesù s'affermano quindi in modo assoluto e perfetto, sopratutto mediante l'unione ipostatica del Verbo colla natura umana del Salvatore; in virtù di quest'unione, l'umanità di Gesù è perfettamente di Dio.

Questo titolo di Servo di Iahvé viene meglio spiegato dal Profeta in tutto il brano che oggi si legge alla messa. Trattasi d'un aspetto nuovo e singolare sotto il quale ci si presenta il Messia. Il suo regno dovrà sicuramente essere glorioso e trionfante, ma gli inizi saranno umili, e prima che Gesù entri nella propria gloria, sarà necessario che Egli patisca molto e venga confitto alla croce.

Ma perché il servo di Iahvé deve soffrire? Risponde il Profeta: "Egli s'è addossato i nostri guai e i nostri peccati; il Signore l'ha caricato dei nostri peccati, e noi veniamo risanati in grazia delle sue

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piaghe. Egli muore senza far lamento, sarà sepolto tra gli empi ed il suo tumulo sorgerà tra quelli dei potenti. Ma in grazia di questo suo spontaneo sacrificio il Signore gli accorderà una progenie sterminata, ed egli colla sua parola ricondurrà molti alla giustizia".

Il seguente responsorio è stato stralciato dal salmo 101, e descrive i sentimenti di Gesù nell'estrema agonia, sentimenti di dolore e d'umiliazione, ma di perfetta confidenza in Dio che, giunto il momento, sorgerà in suo aiuto e lo risusciterà: "Signore, ascolta la mia preghiera, giunga a te il mio grido. Non volger via da me la tua faccia; ogni volta che sono in tribolazione, dammi ascolto. Nel dì che t'invoco, t'affretta ad esaudirmi, giacché si dileguarono t miei giorni siccome fumo, e le mie ossa, quasi in una vampa, sono riarse. Fui abbattuto siccome fieno, inaridì il mio cuore, sicché dimenticai di mangiare il mio pane. Tu però ben sorgerai a compassionare Sion, giacché è tempo d'averne pietà, ne è giunto il momento".

Con quanta trepidazione e rispetto non dobbiamo noi meditare nel Salterio questi sentimenti di Gesù Crocifisso! Questo sacro libro di preghiera è il miglior commentario del santo Vangelo, giacché mentre gli Evangelisti s'occupano di preferenza a descrivere la vita esterna e l'insegnamento del Salvatore, il Salterio ce ne descrive gl'intimi sensi del cuore.

Oggi si legge la Passione del Signore giusta san Luca (XXII, 1-7 e XXIII, 1-53), che riflette a preferenza d'ogni altro la predicazione evangelica di san Paolo, col quale s'accorda verbalmente nella formula dell'istituzione eucaristica.

La citazione d'Isaia fatta da Gesù nell'ultima cena: Et cum iniquis deputatus est, si riferisce al brano letto precedentemente, il quale così riceve autenticamente un significato messianico.

Le spade che avevano portato gli Apostoli salendo al cenacolo, si spiegano tenendo conto dell'usanza dei Galilei, i quali avevano in uggia i Giudei, sicché salivano in armi a Gerusalemme per celebrarvi la solennità pasquale. E che anche gli Apostoli non portassero la spada per semplice complimento, lo si vide poi dopo nell'orto di Getsemani, dove dové intervenire l'ordine di Gesù per farla riporre nel fodero. La Chiesa non intende di vincere uccidendo, ma lasciandosi uccidere.

Sulla via del Golgota Gesù conforta le buone donne che piangevano i suoi strazi, e le avverte che la loro devozione alla sua passione non si fermi in uno sterile sentimentalismo, ma valga a far emendare la loro vita. Chi s'affligge infatti della morte del Signore, deve sradicare e svellere dal proprio cuore il peccato che ne è stato

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il carnefice. Si in viridi ligno haec faciunt, in arido quid fiet? Cioè, se la divina giustizia è si rigorosa nel punire il peccato sul proprio Figliuolo innocente, che non farà ella verso il peccatore ostinato, quando, al momento dell'ultimo giudizio, è finito il tempo della misericordia, ed incomincia quello della santa e pur tremenda giustizia?

Dopo la morte di Gesù escono fuori Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo ed in un momento, quando gli Apostoli stessi si celano, questi che sino allora erano stati timidi e non avevano osato di compromettersi troppo nella causa di Gesù, escono improvvisamente dal loro riserbo, affrontano impavidi l'opinione pubblica, e sono i primi a tributare al Crocifisso l'omaggio della loro devozione.

Non bisogna mai giudicare troppo sfavorevolmente il nostro prossimo. La grazia signoreggia i cuori, ed in un attimo può trasformarli a seconda dei suoi disegni.

L'antifona per l'offerta deriva dal salmo 101: "Signore, - non ostante che la moltitudine delle colpe del genere umano di cui mi son generosamente caricato mi renda indegno del tuo sguardo - accogli la mia preghiera ed il mio grido giunga sino a te - sfondando, a dir cosi, il muro di bronzo che il peccato ha posto tra te e l'umanità prevaricatrice".

Nella prece d'introduzione all'anafora eucaristica, noi preghiamo Dio a gradire i nostri doni, ed a far si che, in grazia degli affetti del cuore, possiamo conseguire gli effetti della passione del suo divin Figliuolo, quale lo celebriamo nell'eucaristico mistero.

L'antifona per la Comunione è tolta pur essa dal salmo 101: "Io temperava col pianto il mio calice, giacché tu non m'hai sollevato in alto per stritolarmi". - Nella passione, la divinità sosteneva l'umanità santa di Gesù per renderla più capace di soffrire. - "Io inaridii siccome erba, mentre tu sei in eterno. Ma tu, o Signore, certo una volta sorgerai ed avrai pietà di Sion, perché è giunto il tempo di muoverti a pietà di lei". - Si, il Signore si leverà alla difesa di Gesù, e sarà all'alba della solennità pasquale.

Allora Egli risanerà tutte le piaghe del suo Cristo, l'inebbrierà di gioia cogli splendori d'una nuova vita. Sion parteciperà a tanto bene, perché la resurrezione non comprende esclusivamente il Cristo, ma si estende a tutto il suo mistico corpo.

Nella colletta di ringraziamento preghiamo il Signore che la passione e morte di Gesù, quale la commemoriamo col mistero dell'altare, c'infonda nell'animo una ferma speranza che Egli un giorno ci largirà in cielo la vita eterna. - La morte di Gesù è sorgente di vita.

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Ecco la più splendida realizzazione di quella profezia d'Osea: O mors, ero mors tua! morsus tuus ero, inferne. Sarebbe stato troppo poco il mostrarsi superiore alla morte con non soccombervi. Gesù ha voluto trionfarne più completamente, e perciò morendo Egli incatena la morte e il Satana ai piedi della croce, perché la morte sia all'umanità principio e fonte d'indefettibile vita.

La benedizione di congedo al popolo è tanto bella, che la Chiesa si serve dell'odierna colletta per terminare nel triduo seguente tutte le ore dell'Ufficio Divino: "Riguarda, o Signore, la tua famiglia, per cui nostro Signore Gesù Cristo non esitò a darsi in mano ai carnefici e a subire il tormento della crocifissione". Non v'ha nulla che più intenerisca il Padre e lo commuova a misericordia verso di noi, quanto il ricordargli la passione del suo Unigenito, e sopratutto l'immensa carità con cui ci ha amato.

Tutta la teologia cattolica si riassume nel Crocifisso. È Lui l'intima ragione di tutti gli altri misteri della fede, giacché è in Gesù che Dio ci ha amati e predestinati alla gloria. Il Crocifisso è il compendio delle opere di Dio, è il capolavoro del suo amore. Egli se ne compiace tanto - et vidit cuncta quae fecerat et erant valde bona -, che non può sentirselo ricordare, non può anzi neppur mirarne l'immagine, senza tutto commuoversi a pietà verso di noi. Con quanta devozione adunque, dobbiamo noi pure contemplare Gesù Crocifisso e presentare al Padre i suoi dolori e i meriti suoi a ricoprire i peccati nostri!

 

da A. I. SCHUSTER, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano - III. Il Testamento Nuovo nel Sangue del Redentore (La Sacra Liturgia dalla Settuagesima a Pasqua), Torino-Roma, Marietti, 1933, pp. 201-206.

 

 

 

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