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Ildefonso Card. Schuster, Liber Sacramentorum > IV. La Sacra Liturgia durante il ciclo Pasquale > Domenica di Pasqua

 

 

Missale Romanum

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DOMENICA  DI  PASQUA

Stazione a Santa Maria Maggiore.

 

Durante questa settimana pasquale la liturgia romana è tutta preoccupata da due grandi pensieri, quello della resurrezione di Gesù, e del battesimo amministrato ai neofiti. Sono come due misteri che s’integrano e s’illustrano a vicenda; uno è simbolo dell’altro; uno è il prototipo, l’altro l’immagine, ma che non si comprendono più se vengono separati tra loro, giacché la rigenerazione delle anime alla grazia mediante il battesimo, in un senso spirituale ma pur denso di realtà, è una nuova resurrezione del Cristo nelle sue mistiche membra.

Le stesse feste stazionali di questa settimana hanno un carattere alquanto differente dalle solennità quaresimali; non vi si parla più di digiuni e di penitenze corporali, ma si visitano invece le grandi basiliche romane, conducendovi come in trionfo lo stuolo biancovestito dei neofiti.

Dopo la vigilia pasquale celebrata in Laterano, la prima visita è alla basilica esquilina della Madre di Dio, perché a Lei, prima che ad ogni altro, debbono essere annunziate le gioie della resurrezione; a lei, che più intimamente di qualsiasi creatura, fu a parte della passione di Gesù. Inoltre, le fatiche sostenute nella notte precedente, e il prolisso ufficio vespertino che doveva nuovamente celebrarsi presso il fonte battesimale del Laterano, difficilmente avrebbero permesso al Papa di allontanarsi troppo dal patriarchio per recarsi in processione a San Pietro, dove sarebbe toccata di regola la messa stazionale in questo giorno solenne.

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L’introito è derivato dal salmo 138, che celebra in genere la scienza e presenza di Dio, che pervadono il più intimo del nostro essere. L’antifona però è stata adattata alla solennità pasquale. Gesù infatti, si è addormentato sulla Croce, affidando al Padre il suo spirito. Egli ora si ridesta tra le braccia amorose di Iahvé, il quale ha accettato l’innocente Vittima che gli si è spontaneamente

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offerta; Egli se l’è accostata al seno, e l’ha riscaldata col proprio calore vitale. Gesù è risorto.

“Io mi levo e mi ritrovo sempre con te; lodate Iahvé; tu tieni su di me la tua mano; lodate Iahvé; troppo eccelsa m’è divenuta la tua scienza; lodate Iahvé, lodate Iahvé”.

Salmo: Iahvé, tu mi scruti, bene tu mi conosci; tu conosci il mio stare e il mio levarmi”.

V). “Gloria, ecc.”.

Segue la splendida colletta. La resurrezione del Cristo è un’anticipazione della resurrezione dell’umanità. Le membra, vedendo oggi il loro mistico capo risorto da morte, vengono confermate nella speranza che un giorno anch’esse conseguiranno egual sorte.

Preghiera. - “O Signore, che oggi per mezzo del tuo unigenito Figlio hai sconfitta la morte e ci hai aperte le porte della beata eternità, adempi colla tua grazia i voti che tu per primo ti degni di ispirarci. Per lo stesso Signore, ecc.”.

La lettura è tratta dalla prima Epistola ai Corinti (V, 7-8). Bisogna toglier via l’acredine dell’antico fermento, per celebrare la Pasqua negli azzimi dell’innocenza e della schiettezza. Cristo è la nostra Pasqua, perché Egli colla sua immolazione ha posto termine all’Antico e ha dato principio al Nuovo Testamento. Noi dunque, come Lui, dobbiamo procedere innanzi a Dio col candore e la semplicità dei figli, non avendo più nulla di comune colla vecchia natura avariata. Come il Figlio di Dio riflette puramente la bellezza del Padre, così ancora ciascun cristiano è chiamato a riflettere la bontà e la bellezza divina. È appunto quello che diceva l’Apostolo in altro luogo: Estote imitatores Dei, sicut filii charissimi (Ad Ephes. V, 1).

Segue il responsorio graduale, tratto dal salmo pasquale 117: “Questo è il giorno che ha fatto Iahvé, in esso esultiamo e rallegriamoci”. Infatti, se il dì di Natale noi abbiamo cantato con tanta gioia, che Gesù s’era incarnato de Spiritu Sancto ex Maria Virgine, ed era nato per patire e morire, quanto più s’addice la gioia a questo giorno in cui, senza alcuna umana cooperazione, Dio solo ridà la vita a Gesù, e, a dir così, lo rigenera alla propria gloria? Favore sì grande fa sì che Gesù prorompa in vivissime azioni di grazie: “Lodate Iahvé, perché è buono, ed eterna è la sua misericordia”. Egli è particolarmente buono con ciascuno di noi, cosi che non ha risparmiato il Figlio, appunto per non riserbare a noi che i magnifici tesori della sua bontà.

Con Gesù ha fatto trionfare la sua inesorabile giustizia, con gli uomini la misericordia.

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Il verso alleluiatico s’ispira alle parole dell’Apostolo: “La nostra Pasqua è stata già immolata: Cristo”. Gesù è detto Pascha nostrum, perché Egli s’è dato interamente a noi. Egli non vuole celebrare la Pasqua da solo, ma vuol farla con noi, affinché anche noi ci associamo alla sua passione, e quindi alla sua trionfale resurrezione.

Egli non si chiama Pascha semplicemente, ma Pascha nostrum, perché, se la sua morte e resurrezione non divengono intimamente nostre in grazia del nostro rivivere, di far nostri colla nostra vita spirituale i misteri suoi, le sue pene e le glorie sue non ci saranno punto proficue, precisamente come non giova affatto all’infermo il farmaco, fin tanto che non viene sorbito e si conserva entro le vetrine della farmacia.

L’origine della sequenza (acolutia) deve probabilmente esser ricercata a Bisanzio, donde pel tramite di monaci Greci pervenne nella badia di San Gallo in Isvizzera. I lunghissimi neumi orientali sull’alleluia, riuscivano di noia e di difficile esecuzione ai cantori latini; onde il monaco Notchero pensò di sostituire a tutti quei vocalizzi in coda all’alleluia, dei testi ritmici, a cui si dovessero adattare gli identici neumi del iubilus alleluiatico. E cosi ebbe origine la sequenza. La sequenza pasquale è attribuita a Wipo († 1050), cappellano alla corte di Corrado II e di Enrico III. Il testo edito nel Messale è mutilo, giacché in esso è soppressa tutta la quinta strofa, la quale manca così del suo corrispondente.

Strof. V. Credendum est magis soli
              Mariae veraci,
  
            Quam iudeorum

              Turbae fallaci.

 

Scimus Christum surrexisse
A mortuis vere;
Tu nobis victor
Rex miserere.

Anche l’originario praecedet suos, all’epoca della revisione Piana del Messale venne cangiato, per svista probabilmente paleografica, in praecedet vos. L’amen e l’alleluia sono pure posteriori.

1) I cristiani diano tributo di lode alla vittima Pasquale.
2) L’agnello riscattò il gregge;
Cristo innocente, col Padre
Riconciliò i peccatori.

3) Dicci, o Maria,
Che hai tu veduto lungo la via?
4) Il sepolcro del Cristo tornato di nuovo a vita,
E la gloria vidi del Risorto.

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5) È piuttosto a credere alla sola
Maria verace,
Che alla turba
Fallace d’Israele.

 


2a) La morte e la vita s’azzuffarono
In uno strano duello;
La fonte della vita, già morta,
Vive e regna.
3a) Gli angeli che facevan fede (della resurrezione),
Le fascie e il sudario.
4a) Risorse il Cristo, mia speme;
Precederà. i suoi in Galilea.

 

5a) Sappiamo che Cristo è risorto
Indubbiamente da morte.
Tu a noi, vittorioso
Monarca, dona misericordia.

La sequenza, al pari dell’innodia dell’ufficio, apporta alla liturgia un elemento poetico estrascritturale e d’ispirazione privata; motivo per cui Roma l’ammise solo tardi nei propri libri liturgici. Nel cerimoniale della corte papale, il posto concesso nel secolo XII alla sequenza era estraliturgico, durante il convito o il simposio del clero nel triclinio Leoniano.

La sequenza pasquale, in particolare, trasportata dentro la messa a guisa di inno preevangelico, ha perduto molto del suo antico carattere drammatico, che in Francia la rendeva tanto cara al popolo; quando cioè al mattino di questo giorno essa veniva alternata dallo stuolo degli Apostoli, dall’assolo di Maria di Magdala e finalmente dal coro finale.

La lezione del Vangelo col racconto del messaggio dell’angelo alle pie Donne, è tolta da Marco (XVI, 1-7). La resurrezione di Gesù Cristo è un fatto dogmatico solidamente documentato. Essa è avvenuta in mezzo ad un ambiente in gran parte ostile, - i giudei -, in parte refrattario a prestarvi fede; e sono, non soltanto gli uomini, gli Apostoli, ma le stesse donne. Non si può dunque pensare alla autosuggestione della prima generazione cristiana, che avrebbe attribuito al Cristo storico, quanto invece era una delusione nelle loro speranze. No; la resurrezione di Gesù invece fu creduta da loro, loro malgrado: essi non erano disposti ad ammetterla, e doverono piegarsi all’evidenza. Essi credettero, ma perché videro, perché palparono sensibilmente, perché mangiarono e bevvero con lui, che era morto e risuscitò.

Il verso offertoriale è tolto dal salmo 75. “La terra fremé ed allibì, quando il Signore risorse per venire a giudicare il mondo. Come la natura è stata associata alla maledizione di Dio contro il peccato di Adamo, così, al dir di san Paolo, essa è in attesa impaziente del giorno della riscossa e del suo affrancamento dallo stato di degradante servaggio in cui la detiene il peccatore. Al primo annunzio della parusia del Cristo risorto, la terra si scuote dai suoi cardini, perché già incomincia il giudizio di Dio sul mondo infedele; all’ultimo giorno poi, allorché Gesù verrà a giudicare definitivamente i vivi ed i morti, tutta la creazione sentirà la presenza del Creatore, e si associerà a lui nel combattere gli empi, come dice la Sapienza: et pugnabit cum illo orbis terrarum contra insensatos (Sap. V, 21).

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La colletta sulle oblate e quella di ringraziamento sono le medesime che nella passata veglia, perché forse originariamente questa seconda messa non c’era, ed il sacrificio pasquale era quello che poneva termine alla solennità del battesimo.

L’iniziazione ai misteri pasquali, come si esprime l’orazione sulle oblate, non deve terminare col ciclo liturgico della Pasqua. La Pasqua di Cristo è eterna, perché Egli, entrato una volta nella propria gloria, non può più discendere da quel fastigio. Il cristiano è chiamato anche egli a partecipare di questo carattere di perennità di resurrezione, giacché egli nella vita spirituale deve esprimere a sua volta una stabile e continua pasqua.

Nel preludio dell’anafora consacratoria ed al principio dei dittici, si fa memoria della resurrezione del Signore, come nella notte precedente.

L’antifona per la Comunione deriva dal testo di san Paolo, che è stato già recitato nella lezione: Cristo è la nostra Pasqua. Egli è stato immolato. Banchettiamo adunque, ma cogli azzimi della verità e della schiettezza; nutriamoci di Lui. Ogni altro cibo, ogni altro condimento profanerebbero la nostra Pasqua. Cristo immolato, cibo dei fedeli, indica la passione di Gesù, che dobbiamo imprimere nel nostro spirito; il pane azzimo poi, non fermentato né rigonfiato col lievito, significa lo spirito di mortificazione che deve condire la vita cristiana.

Nella colletta dopo la Comunione, si ricorda che l’Eucaristia è pegno della Comunione dei Santi, la quale riunisce in un identico spirito i cuori di tutti i fedeli. È per questo che in antico i fedeli, nell’atto di ricevere dal proprio vescovo la sacra Comunione, gli davano l’amplesso di pace, di cui oggi l’estremo ricordo si conserva in quel bacio che i fedeli imprimono sul suo anello episcopale. Per l’identica ragione, i sacerdoti s’inviavano reciprocamente in dono la santa Eucaristia, perché Gesù in sacramento ci comunica il proprio spirito; in modo che la moltitudine di quei che lo ricevono, in grazia di Gesù, di cui vivono, formi veramente cor unum et anima una.

La divina Eucaristia, mentre è il memoriale della morte del Signore, ce lo rappresenta altresì glorioso. Essa quindi inocula in noi i germi di morte, per essere a parte della morte del Cristo, ed al tempo stesso ci mette a contatto e a parte della resurrezione del Signore.

 

da A. I. SCHUSTER, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano - IV. Il Battesimo nello Spirito e nel fuoco (La Sacra Liturgia durante il ciclo Pasquale), Torino-Roma, Marietti, 1930, pp. 73-77.

 

 

 

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